di Simone Lambiase
Il convitto nazionale “Maria Luigia” si ergeva imponente su piazza Dante. Le sue tre grandi facciate ambrate, in perfetta armonia con l’assenza di movimenti della piazza, ricordavano uno di quei quadri silenziosi di Giorgio de Chirico. In quel vuoto di bruma e gelo, l’orologio del padiglione centrale segnava le sette e mezza del mattino e a quell’ora la piazza era ancora deserta.
Al secondo piano del convitto, diviso in pianta A e B, gli educatori iniziavano ad aprire gli antichi finestroni di legno delle stanze da letto dei giovani calciatori del Parma.
Nella parte A, il professor Cinque, con camicia a quadri e jeans anni ottanta, avanzava lento per i corridoi.
Entrato nella stanza numero otto, dove c’erano Sasà e Guido, Cinque sprofondò in una cupa oscurità dove fu subito colpito dal forte odore di chiuso, che si era incrostato nelle pareti a causa della respirazione dei due ragazzi. Con delicatezza e senza far rumore, il professore aprì l’ultimo finestrone, dando la possibilità all’aria nuova, come alla sottile luce tersa del sole di ottobre, di entrare al centro dell’antro in cui si era condensata una vaporosa nube di sonno e di bava.
La voce del professore era confortante, sembrava davvero un padre di famiglia: – Ragazzi, non vorrete mica perdere la colazione? I vostri amici stanno già scendendo a mensa!
E così, risvegliati da quella voce paterna, Sasà e Guido scesero a mensa per poi subito avviarsi a scuola.
Il sole batteva con più impeto ora e, imboccato il viale dei Caduti, si diressero in direzione del liceo classico “Pier Paolo Pasolini”.
– Che hai alla prima ora? – chiese Sasà, cercando di dimenticare il calore del letto.
– Due ore di italiano, – rispose Guido.
– Con Paola Cucci? – domandò Sasà spalancando gli occhi.
– Con Paola Cucci! – sorrise Guido senza dare molta importanza all’assunto.
– Pezzu e sticchiu! – ribatté Sasà, non riuscendo a celare il suo lato calabrese proveniente dall’intestino in tumulto.
– Dio mio, assurda, prima o poi mi dichiaro! – ora Guido muoveva le parole tra ironia e realtà.
– U scemu ca si, non ti guarda nemmeno da lontano!
– Ne riparleremo, tranquillo! Non mi scappa nessuna, nemmeno Paola Cucci! – diede una pacca sulla spalla all’amico.
– Entriamo a scuola dai, che per tre ragazze che ti sei fatto pensi davvero di essere Casanova! – disse Sasà affrettando il passo.
Pochi attimi e arrivarono ai piedi dell’entrata principale, salirono i dieci scaloni e si salutarono; ognuno diretto verso la propria classe, Sasà in primo liceo e Guido in quinto ginnasio.
Attraversato il corridoio centrale, Guido, ormai solo, fu colto da un’agitazione improvvisa. La professoressa Paola Cucci stava parlando con la preside – e amica – Montoro a pochi passi dalla sua classe.
Così, preso dalla curiosità, si nascose dietro l’armadio del corridoio e cercò di origliare:
– Ho nominato la nuova vice preside, sarà la professoressa Luciani. Pertanto, nel caso in cui io non ci sia, puoi tranquillamente far riferimento a lei! – disse con tono neutro la preside Montoro.
– Ah, mi fa piacere, è una donna in gamba! Comunque, spero di non aver bisogno di lei. Tra l’altro, non ti nego che ultimamente sono un po’ stanca e non avrei affatto tempo per la Luciani!
– Perché? Cosa succede? – chiese preoccupata la preside Montoro.
– Uff… Mi sono lasciata con Andrea. Ci dovevamo sposare a breve, lo sai, – mormorò sotto voce Paola Cucci mentre l’occhio destro si perdeva in un battito di nervi.
– In poche parole? L’ho trovato a letto con due donne…
E aspetta, sai come ha reagito? – sorrise con isterismo e poi con serietà per calmare la tensione nel volto della preside, – Mi ha fissato con superiorità e, guardando la carne nuda delle due, mi ha detto: – Mi dispiace ma sono un uomo, non riesco a controllare i miei impulsi.
– Non ci credo! – spalancò la bocca la Preside Montoro. Perché non me lo hai detto prima, Paola? Non ho parole! Se ti va, possiamo vederci dopo e mi racconti bene cosa è successo!
– Non preoccuparti, ho parlato con un’amica chiaroveggente e mi ha rasserenata – disse la professoressa Paola Cucci con fuorviante ironia.
Inoltre, consapevole della complicità della preside Montoro alle sue esternazioni metafisico-astratto-infondate, continuò: – Non solo, mi ha anche detto che il mio prossimo compagno sarà di segno Acquario, basterà solo aspettare un po’!
Detto fatto.
Dall’angolo dell’armadio, come preso da una reazione incontrollabile, Guido colse l’occasione al balzo e, senza pensarci troppo, impossessato da un’improvvisa Tourette di parole e gesti signorili, le disse non appena la preside Montoro si allontanò: – Giusto per ricordarle, professoressa, che io sono acquario!
Paola Cucci non sembrò destabilizzata dall’esclamazione del giovane. Malgrado ciò, sussurrò con voce bassa:
– Magari potessi fermarmi nel tempo… – una pausa vuota e subito riprese senza dar spazio a fraintendimenti:
– Basta scherzi ora! Vai in classe che sei, come al solito, in ritardo!
Paola Cucci era considerata una divinità nell’istituto “Pier Paolo Pasolini” e – un Dio non può farsi conoscere da comuni mortali – si ripeteva ogni volta prima di entrare in classe.
Appena entrata, gli studenti si alzarono in una vera e propria riverenza nei confronti di quell’ immagine sacra.
– Sedetevi ragazzi! – tuonò con severità.
I ragazzi, con ordine ma lentezza, presero posto a sedere. E, nonostante il silenzio che si era prodotto al suo arrivo, gli occhi dei maschi non riuscirono a smettere di far rumore: il vestito nero, appoggiato fino al muscolo superiore delle gambe, si abbandonava alla sensualità delle calze cristalline. Inoltre, il caschetto nero, che danzava dolcemente sul viso di pallida ceramica, esaltava con erotismo le labbra rosse che circondavano dei denti bianchi e luminosissimi. Lo sguardo, intanto, con inflessibile serietà, si diresse al centro della classe e accompagnò la voce solenne: – Oggi abbiamo il test scritto sul quinto canto della Divina Commedia, mi raccomando!
La frase venne articolata con freddezza e al suo cospetto, gli studenti, i maschi soprattutto, furono obbligati a ritornare alla realtà.
Dal fondo della classe, ripensando alla conversazione avuta qualche attimo prima, il calore delle vene di Guido aumentò di gradazione fino a cuocersi ai limiti inferiori della gola. A quell’altezza, una mano invisibile sembrava stesse stringendo sempre più forte un filo d’acciaio mentre ripensava al perché non aveva saputo rispondere al richiamo della frase – Magari potessi fermarmi nel tempo – e a come, in reazione, aveva preferito bruciarsi la lingua nell’ardente carbone del silenzio. Non capì, e questo lo tormentava, se ci fosse stata serietà nelle parole della sua professoressa o solo uno strano frammento di ironia proveniente da un corpo così severo.
Il test su Dante durò per ben un’ora e mezza. Novanta minuti in cui Guido non riuscì a redigere più di dieci righe a causa del suo pensiero, sempre rivolto alla breve conversazione avuta all’ingresso della classe.
All’uscita da scuola, dopo aver raccontato a Sasà quanto accaduto, gli disse: – E se le mando un messaggio? Così, per scherzo. Ho, tra l’altro, il suo indirizzo e-mail.
Sasà, con convinzioni di ferro, non esitò: – Fallo subito, non hai niente da perdere, al massimo ti sarai fatto la donna più desiderata e irraggiungibile dell’istituto!
Titubante, Guido prese il cellulare e con le mani tremanti scrisse: Per un attimo ci avevo creduto di poter essere io l’acquario, si vede che doveva andare così.
Poi, invaso da un forte sgomento cancellò il messaggio e disse: – Meglio di no
– Troppe parole e pochi fatti! – disse Sasà sorridendo all’amico.
– Lasciamo stare, è pura fantasia, ho Vanessa e Sofia se voglio fare qualcosa. Inoltre, la professoressa lo sa, mi ha visto con entrambe. Non accetterà mai di essere il terzo incomodo! – terminò autocelebrandosi.
Mangiato un panino con velocità da avvoltoi, i due amici si diressero al campo di allenamento con il bus trentadue. Arrivati negli spogliatoi, come ogni martedì, ascoltarono il discorso del mister e si diressero al campo per il riscaldamento muscolare. Dopo un’ora di corse, tattiche ed esercizi per rinforzare gli arti inferiori, durante la partitella finale, Guido chiese al mister di poter andar via qualche minuto prima a causa di un dolore alla caviglia destra e, appena concessa l’approvazione, si diresse con lento affanno negli spogliatoi. La prima cosa che fece, ancora sudato, fu prendere istintivamente il cellulare nel giubbino. Lo vide e il cuore gli saltò in gola dal contraccolpo. Aveva ricevuto una nuova e-mail, il mittente: Paola Cucci.
A quel punto, schiacciato sotto la pressione del solenne nome, il fiato si accelerò da solo in un corpo quasi semi-movente; Guido rimase immobile. Cercò di pensare al perché. Pensò. Pensò e decise. Decise che lui, proprio-lui, non poteva essere fatto prigioniero da un qualsiasi messaggio. Riprese i sensi e nel riprenderli si oppose all’improvvisa stagnazione del corpo. Lo aprì e lesse: Ho corretto il tuo test di questa mattina. Credo che dovremmo parlare al più presto, ti vedo distratto. Questa sera andrebbe bene per te? Ho parlato anche con Chiara e Marco che vertono nella tua stessa situazione e vorrei darvi la possibilità di ripeterlo. Posso passare a prenderti al convitto e organizziamo una riunione con tutti gli altri?
Le dita di Guido vibrarono a causa di un’inspiegabile emozione. Nel muoverle fece scorrere lo schermo verso il basso e dopo un lungo spazio bianco, l’email si concluse in maniera confusa: Magari potessi fermarmi per davvero nel tempo!
Con una parte del cervello che sembrava essersi paralizzata, Guido si spogliò e si diresse sotto la doccia. Il sudore dell’allenamento mutò in un liquido gelido che scorreva lungo tutta la schiena al passo di un brivido multiforme in cui gioia e paura si fondevano alla perfezione. Non articolava più immagini, né pensieri: il blocco era totale. L’unica risposta che il corpo ricevette dai lenti impulsi cerebrali veniva dal sesso tra le gambe, che esplose improvviso tra attimi di godimento e desideri di morte. Tuttavia, riuscì a vestirsi e, preso di nuovo contatto con la realtà, le rispose tremante: Incontriamoci alle venti.
Nell’autobus trentadue, al ritorno, i due amici, come al solito, sedettero uno accanto all’altro.
Guido fissava il vuoto oltre le vetrate. Sasà, invece, si ritrovò smarrito di fronte a quell’assenza improvvisa:
– Che succede fratello!?
– Niente – rispose Guido con fissità nello sguardo.
– Come se non ti conoscessi, vero? – gli disse il calabrese cercando di richiamare la sua attenzione.
– Mi ha scritto Paola Cucci! – mormorò Guido, abbassando il tono della sua voce di un’ottava.
– Non ci credo, e che disse!? – Sasà, preso dallo stupore, iniziò a confondere i tempi verbali del passato.
Guido, ancora confuso, cercò di riassumere in una sintassi ordinata quanto accaduto, mentre lo stupore iniziò a stagliarsi nei grandi occhi neri di Sasà.
– Sei un eroe! – disse Sasà dando un significato alla parola eroe simile, per lui, a quello della parola maschio, uomo, predatore.
– Ma per favore… – i battiti del cuore aumentarono nel petto di Guido.
– Ma sì… Tu vai, passi una notte di passione, e il gioco è fatto!
– Dai Sasà, smettila! E poi, non so nemmeno se andrò. Vuole parlarmi del test di questa mattina. Dio santo, l’ho fatto malissimo!
– Certo che devi andare, sarai un eroe! Tra l’altro, non sei stato tu a dirmi di volerla conquistare? Ora ne hai l’opportunità. Non essere stupido! – gridò affettuosamente mentre si aggrappava al maglione rosso di Guido, pensando che la forza delle sue strattonate gli avrebbe fatto ordinare i pensieri.
– Ci saranno anche altri compagni di classe, idiota! – concluse Guido, bloccando la conversazione mentre ritornava a dirigere lo sguardo verso la città.
Alle sette e trenta di sera, Guido era già pronto. Si vestì con anticipo perché aveva bisogno di sentirsi comodo nell’abbigliamento che aveva scelto. Credeva davvero, o sognava in fondo, che sarebbe stato un appuntamento romantico tra loro due, sperando che i suoi compagni, Chiara e Marco, non sarebbero mai venuti. Nell’agitazione aveva indossato una camicia bianca coperta da un gilet nero a bottoni neri che si appoggiavano elegantemente su un pantalone di velluto scuro. Non solo, la rigida eleganza dei suoi abiti si presentava anche sotto la carne del suo bel viso da bambino: era tesissimo, così come i suoi capelli neri alla Michael Corleone coperti da una quantità eccessiva di cera.
Dopo un’eternità racchiusa in trenta minuti, tra ansia e tensione si fecero le otto, il cuore iniziò a battere all’impazzata e, nel momento in cui Guido iniziò a dirigersi verso il piano terra del convitto, il piccolo pezzo rosso nel petto esplose completamente all’interno della sua gola mentre si ripeteva con ossessione e a voce bassa: – Magari potessi fermarmi nel tempo.
Attraversato il patio centrale che teneva unite le piante A e B, arrivò al portone e si rese conto che lei era già in piazza ad aspettarlo. Il vestito rosso, coperto da una giacca nera, le accompagnava con sensuale armonia un rossetto scuro che si confondeva con il buio della sera. Nel frattempo, intrattenendosi in una simpatica conversazione fatta di gesti e sorrisi con il professor Cinque, Paola Cucci si accorse con la coda dell’occhio dell’avvicinarsi di Guido.
– Eccolo qua il nostro studente – disse Paola Cucci sorridendo al professor Cinque.
– Allora, – esclamò Cinque, – massimo alle dieci professoressa, mi raccomando!
– Certo professore, non tarderà un minuto di più!
Dopo aver poggiato la sua mano paterna sul volto dell’elegante bambino, il professor Cinque andò via. Rimasti soli, la professoressa e l’alunno, senza articolare alcuna parola, si diressero alla macchina di lei, un fuoristrada nero con le parvenze di un elegante carro armato d’assalto.
Guido avanzava con passo svelto, Paola Cucci, invece, fu
rallentata da un richiamo improvviso proveniente dal corpo del suo alunno. In quei capelli scuri e ordinati, in quel volto soffice, in quelle labbra rosa, vigorose, rivide Andrea, e ricordò che avrebbero dovuto sposarsi tra pochi mesi. Il calore sul volto la spinse a pensare senza alcun freno e ad una velocità incontrollabile. E allora con Andrea rivide nella sua mente la pulsione che trasgredisce la legge, la natura che sopprime la ragione, la bestia che consuma la vittima.
Pochi passi e le associazioni si restrinsero sempre di più, fino al momento in cui tutto fu racchiuso in una semplice frase che rimbombava da lontano: ‘mi dispiace ma sono un uomo, non riesco a controllare i miei impulsi’.
– Che gli ha detto? – chiese Guido riportandola alla realtà
ma ignaro della sua assenza.
– Cosa?
– Che gli ha detto al professor Cinque?
– Gli ho detto del tuo test, della riunione, perché?
– No, no, così… – disse Guido con timidezza nelle corde vocali mentre appoggiava la sua schiena sul sedile in pelle marrone.
Rapidamente, la macchina in moto lasciò la piazza e all’allontanarsi dal convitto Guido continuò con la sua curiosità: – E gli altri, professoressa?
La risposta tardò in arrivare. Prima, Paola Cucci dovette strizzare nervosamente l’occhio destro mentre inseriva la terza.
– Ho contattato Chiara e Marco, che sono gli unici ad aver fatto peggio di te, ma avevano impegni. Domani darò loro una buona lezione davanti ai tuoi compagni di classe, non preoccuparti. Ma va bene dai, lasciamo stare… – sbuffò Paola Cucci con noia cercando un altro argomento di conversazione.
– Dove andiamo? – riprese sempre lei nell’attimo in cui la voce prese toni acuti da giovincella.
– Non lo so! – disse Guido che da parte sua aveva già perso la bussola della realtà, non credendo di trovarsi così vicino alla donna più desiderata e irraggiungibile dell’istituto.
– Ti va di andare a casa mia? Vivo sola, potremmo parlare comodamente nel mio studio! – la professoressa cercò di andare al dunque senza troppi giri di parole. All’ascoltare la proposta di Paola Cucci, l’elegante Michael Corleone bambino ricordò le parole di Sasà e pensò per un attimo di poter essere a un passo dal diventare un eroe. Non sapeva però che gli eroi, molte volte, sono i protagonisti di tragedie inspiegabili.
– Va bene, come dice lei!
Parcheggiato il gigantesco fuoristrada, si ritrovarono nel giardino di casa di Paola Cucci.
Nel patio centrale, la ghiaia grigia, illuminata da piccoli lampioni in ferro, si estendeva fino all’entrata, dove un arco di cemento copriva l’ingresso della villetta in calce bianca.
Appena entrati, la professoressa cercò di non creare tensione e lo fece accomodare in salotto mentre appoggiava con delicatezza il cappotto nero sui bordi di una sedia di ebano.
Vedendolo lasciar cadere i suoi pochi chili sulla parte estrema del divano, Paola Cucci tentò di rompere il ghiaccio e gli disse: – Guido, dimmi la verità, perché mi hai detto quelle parole stamattina?
Non lo so… – rispose il giovane tra mille dubbi e una certezza nascosta che proveniva dai frenetici palpiti del petto. Ma lei lo sapeva, lei lo vedeva, lo sentiva quel disagio; chiunque trovandosi in una posizione di tale dominio avrebbe percepito l’imbarazzo e l’inutilità di una preda così indifesa. Ciononostante, Paola Cucci finse il contrario e gli domandò:
– Ti senti a disagio?
– Abbastanza…
– Tranquillo, tranquillo… – gli sussurrò mentre gli accarezzava il viso rigido.
In quel momento, Guido avrebbe voluto scomparire, dimenticando qualsiasi storia di eroi e Casanova. Davvero non pensava, adesso, di poter essere pronto per trovarsi al cospetto di un corpo così divino, così maturo.
– Ho capito, forse vuoi questo! – mormorò Paola Cucci con parole che divennero lame acuminate dirette al corpo immobile di Guido.
D’improvviso era calore, era stupore. L’aria si fece densa. Paola Cucci accelerò la tensione. Lo fissò negli occhi, lo spezzò nel sangue, lo ghermì nell’anima. L’inibizione era diventata totale e, come un potere divino che scendeva dall’alto, lo baciò, arrivando finalmente a toccare le labbra rosa di carne viva che aveva da tempo desiderato.
Non era un bacio, no, non era un semplice bacio. Il contatto tra le labbra segnò per Guido il passaggio verso l’aldilà, il passaggio verso un nuovo mondo che fino ad allora era stato separato da un limite di senso comune e fanciullina innocenza. Guido era ormai, come un Colombo moderno, al cospetto di una terra sognata che per anni aveva creduto inesistente. Una terra che ora esisteva per davvero, ma non era affatto come aveva immaginato. Il limite era stato passato e, di solito, oltre il limite si incontra il delirio, l’assurdo, lo sconosciuto, l’ignoto, l’indesignabile o più semplicemente: l’altro. Un altro che era già nudo e pronto a presentarsi a tutti i suoi cinque sensi.
Gli occhi di Guido non vedevano più. Le luci si spensero. L’oscurità del salotto scaraventò la sua poca immaginazione al centro di una selva nera senza cammino e senza uscita in cui altro non poteva essere che pasto per bestie feroci. Nel mezzo di quella vegetazione immaginaria, le labbra di Paola Cucci si mossero in silenzio per poi spuntare all’improvviso, avvolgendo la preda quasi a volerla mangiare in un sol colpo.
In pochi istanti, le immagini iniziarono a schiarirsi: il rossetto scuro, con aspetto di morte, dava a Guido l’impressione di ritrovarsi al cospetto di un boa nero le cui fauci già assaporavano il gusto fresco della sua tenera carne. Il tempo di soccombere e i baci di Paola Cucci si consumarono in piacere, in violenta saliva, in zannate aggressive.
Il gioco della lussuria era appena iniziato e lui era già sconfitto dai colpi dello sguardo, dai colpi della voce, dai colpi delle labbra di un’assetata Medusa mitologica.
In risposta alla violenza dei baci neri di Paola Cucci, Guido non riuscì ad aprire neanche per un attimo la bocca frigida. Allora lei lasciò cadere la sua di bocca tra le gambe del giovane studente e, lanciati i pantaloni al suolo, fece in modo che la paralisi potesse considerarsi completa.
Lei ne rimase indifferente, continuando senza esitare il feroce andirivieni. Guido, invece, cercò di alzarsi. Voleva andarsene ma allo stesso tempo voleva restare per assaggiare il brivido ultimo della morte. Rimase fermo. Lei era come indemoniata, il sesso di lui la portava fuori controllo: lo teneva imprigionato al sofà, stringendolo sadicamente in modo da fargli conoscere il dolore, in modo da fargli conoscere la vita.
– Non ti muovere – gli ordinò con voce augusta mentre lui cercava di alzarsi.
Erano passati solo dieci minuti ma sapevano di infinito. La fine era prossima: con voglia di sputi e violenza lei si strinse gli abbondanti seni, cercando, al seguito, di avvicinare con rabbia le rigide mani di Guido alle sue cilindriche areole. Al percepire il freddo delle dita, un brivido di unghia e carne squarciò la schiena dei due, li graffiava, li spaccava. All’improvviso, attratta dalla costante erezione, la bocca nera ricadde tra le sue gambe. Le fauci ora stringevano in un calore infernale, in un calore dannato. Pochi attimi e si presentò l’orgasmo, il mortale desiderio del piacere ultimo, il maleodorante retrogusto del liquido bianco sul volto di lei, gli schizzi affannati di una maledetta esalazione: – mi perdo, mi perdo, muoio e mi perdo! – il soliloquio di Guido mostrò tutta l’inutilità del suo corpo al cospetto del sesso, un sesso che non aveva potuto guardare negli occhi, un sesso che sapeva di oblio.
Il cadavere di Guido fu ritrovato il giorno dopo. All’arrivo della polizia, nel momento in cui i gendarmi stavano mettendo piede in casa, Paola Cucci si avvicinò il coltello alla gola e disse al corpo sanguinante del giovane prima di togliersi la vita: – Uomo o donna, Andrea, che differenza c’era?
Simone Lambiase