Illustrazione di Oscar Singarella
I pilastri della solitudine
Storie di una inquietudine strutturale
di Rocco Cannarsa
Rocco
Rocco scrive. Siede sulla sedia un po’ sfondata alla scrivania nera. Il cursore sulla pagina vuota scandisce il tempo che passa. Gli manca andare al bistrot e pavoneggiarsi scrittore, col calice di rosso, il tavolo che traballa e il rumore dei tasti ad accompagnare il jazz di sottofondo. Ora, invece, aspetta che il foglio arranchi verso il proprio completamento esistenziale. Riscontra questa costrizione, questa forzata immobilità, sconosciute sia alla parte animale che a quella razionale dell’uomo. Non sente il bisogno di uscire, no. Pretende soltanto gli venga reso il diritto di essere libero. Desidera il moto, la frenesia, le corse, la stanchezza, il sudore, rimettere le camicie. Quelle oscene coi ghirigori. Camminare grondante col suo zaino in pelle colmo di libri; e reclamare l’assenza di tempo per leggerli. Vagare, solo vagare col suo taccuino sottobraccio. Perché Rocco scrive, ma non ha inventiva. Per questo, seduto sulla sedia un po’ sfondata alla scrivania nera, inveisce con i pugni contro il legno, bestemmiando. Bestemmia perché necessita che il mondo si muova e sia se stesso, così che egli possa coglierne la poesia. E aggiungerne del suo, certo. Ma ha bisogno della realtà per comprendersi. Rocco non ne può più di trovare nella caducità di questa stanza la propria casa. Non sopporta più guardare fuori dalla finestra e trovarvi ogni giorno lo stesso squallido panorama: lo stradone, la statale, le due colline, qualcuno che corre. E gli uccellini che hanno fatto il nido nell’albero del cortile e cinguettano e gracchiano. Gracchiano e cinguettano. Fa il conto alla rovescia nella speranza che al più presto sfiorisca la primavera. E legge poco e niente, perché la lettura doveva essere il rifugio dalla vita. Ora tutt’al più cerca la via di fuga dal rifugio. Non ne può più di pensare e scrivere. Scrivere e pensare. Vuole essere travolto dalla vita e lamentare di non averne la possibilità. Fuori. Fuori. Tornare fuori ad incarnare agli occhi del mondo la mediocrità che lo ha sempre rappresentato. L’inconcludenza. La venerazione. La gratitudine verso la bellezza dell’esistenza. Reclama l’essere torturato da giornate dure e insoddisfacenti. La passeggiata come padronanza di sé. Rocco odia questa parvenza di vita, quest’illusione, e brama tornare a cogliere le fragili certezze della realtà svanita. Vuole smettere di avere paura.
Rocco
Rocco scrive. Siede sulla sedia un po’ sfondata alla scrivania nera. Il cursore sulla pagina vuota scandisce il tempo che passa. Non gli manca andare al bistrot e pavoneggiarsi scrittore, col calice di rosso, il tavolo che traballa e il rumore dei tasti ad accompagnare il jazz di sottofondo. Ha capito che di questo modo di esistere ne ha abbastanza. E aspetta che il foglio arranchi verso il proprio completamento esistenziale. Per quanto questa costrizione e immobilità siano sconosciute alle sue due parti, quella animale e quella razionale, non sente il bisogno di uscire, no. Ha trovato in questo perenne soliloquio una nuova libertà che nel moto, la frenesia, la stanchezza, il sudore, era sempre rimasta latente. Si chiede che senso abbia camminare come un ossesso, grondante di sudore, col suo zaino in pelle colmo di libri, e reclamare l’assenza di tempo per leggerli. Questo e altri lamenti sono svaniti, sembrano quasi appartenere ad un’altra anima. Rocco scrive ma non ha inventiva. Se lo ripete da sempre. Per questo, seduto sulla sedia un po’ sfondata alla scrivania nera, inveisce con i pugni contro il legno, bestemmiando. Bestemmia perché solo ora è riuscito a guardarsi dentro, in una egoistica purezza priva di torbidi, maledettissimi impegni. È arrivato ad amare la propria stanza, trovandone nella caducità la propria casa. Rimpiange le squallide certezze di un panorama mai guardato con attenzione dalla sua finestra: lo stradone, la statale, le due colline, qualcuno che corre. E gli uccellini, che hanno fatto il nido nell’albero del cortile, cinguettano e gracchiano. Gracchiano e cinguettano. E ogni giorno questi suoni acquisiscono una luce nuova. E legge poco e niente, perché non ha più bisogno di rifugiarsi dalla vita. Rocco ha finalmente il tempo di pensare, scrivere. Non vuole essere travolto dalla frenesia della vita e lamentare di non averne la possibilità. Fuori. Fuori. Tornare fuori per incarnare agli occhi del mondo la mediocrità che lo ha sempre rappresentato? Tornare in un mondo che rende le sue passioni poco più che un ritaglio di tempo da una ferrea routine? Essere torturato da giornate dure e insoddisfacenti, trascorrendo una vita che, nella sua profondità, lo inghiotte privandolo della padronanza di sé. Rocco ha paura di uscire. Ha paura di abbandonare questa (non) esistenza scevra di pericoli, problemi, scadenze, aspettative, costrizioni. Non vuole la vita com’era prima. Forse non vuole la vita. È incantato da questa dimensione onirica in cui si sente bloccato, questa parvenza di vita, lontano dalle fragili incertezze che la compongono. Spera che mai sfiorisca la primavera.
Rocco Cannarsa nasce a Termoli (Cb) il 29 Marzo 2000. Vive a Firenze dove frequenta la facoltà di Filosofia. Pubblica nel 2019 il racconto “Un frutto che cade” all’interno dell’antologia “Ricordi” (Mauro Pagliai Editore). Dal 2018 collabora con la rivista fiorentina “Streetbook Magazine”.
Per La Seppia ha scritto il racconto Voci.
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