di Davide Ricchiuti
I
Tutto deve cominciare dalla fine. Perché è alla fine di tutto che ho iniziato a stare bene. Mentre la vita accadeva io non c’ero.
C’era mio figlio, però. Era incatenato all’esistenza in quel periodo. Adesso, quando mi sveglio, guardo le bacche del ginepro che Tempesta ha piantato l’anno scorso, proprio di fianco al mio letto e lo vedo ancora, mio figlio. Non è più recluso. È libero, corre, mi sembra felice. È il suo futuro.
E nel mio, di futuro, includo anche lei, Tempesta. Il suo nome sembra quello di una gatta irrequieta, ma è una ragazza dolce, invece, dagli occhi smisurati. Mentre quello della sua gatta irrequieta, Iris, sembra il nome di una ragazza dolce, dagli occhi smisurati. Tempesta è arrivata qui proprio a causa dei suoi occhi. Le hanno diagnosticato qualcosa di speciale, dentro. Ogni volta che li chiude vede tempeste di stelle e altre cose straordinarie. Quanto avrei voluto che mio figlio avesse avuto lo stesso problema. Sarebbe stata una reclusione più felice, la sua.
II
«Come farai a dormire sempre all’aperto?» mi ha chiesto Tempesta mentre Iris giocava a lanciare in aria una bacca di ginepro. Ho risposto che non avevo altra scelta.
«Non conosco nessuno che abbia mai dormito tutta la vita in un giardino, chissà com’è», ha aggiunto lei.
«Perché, scusa, fino ad oggi avevi mai conosciuto qualcuno che era stato rapito e violentato per dodici anni e sessantadue giorni consecutivi?»
Iris alternava piccoli balzi a camminate felpate verso il ginepro, fino a che un grappolo di bacche mature si è sparpagliato sull’erba.
Tempesta è rimasta spiazzata dalla mia domanda e ha abbassato lo sguardo. Non sapeva cosa rispondere e non ha parlato per diversi secondi, o forse per un’ora. Non so più misurare la durata degli eventi, ma non è importante da quando vivo qui. Intanto Iris emetteva vibrazioni feline nell’aria. Io e Tempesta l’abbiamo seguita a zig zag, l’abbiamo accarezzata, abbiamo fatto Prrrrrrrr per richiamare la sua attenzione. Era settembre inoltrato e, dove passavamo noi, uno scirocco seccava l’aria ed alzava le bacche di ginepro troppo mature dal terreno. Iris, a un certo punto, è saltata sulle spalle di Tempesta e ha provato a rubargliene alcune che le si erano impigliate tra i capelli. Per sbaglio ne ha spremuto un grappolo con i denti ed è fuggita via. Proprio un attimo dopo, il cancello del giardino si è aperto e Doriano, il direttore, è entrato. Continuando a camminare, ha detto:
«Manca solo Iris lì con voi».
E Tempesta ha risposto:
«È appena scappata. Ha mangiato qualche bacca di ginepro e si è dileguata. Forse non le sono piaciute».
Doriano ha fatto soltanto un cenno di approvazione ed è andato verso il suo ufficio.
A quel punto ho detto a Tempesta:
«Torniamo dentro che ti lavo i capelli».
Ma Tempesta sembrava perplessa. Allora ho aggiunto:
«O se preferisci possiamo fare una marmellata di ginepro con una ciocca dei tuoi capelli come ingrediente segreto».
Tempesta a quel punto ha sorriso e ha risposto:
«Farebbe un po’ schifo a me, figurati agli altri. Ma, a parlare di segreti, non ti ho ancora detto una cosa. Secondo Doriano le bacche di ginepro contengono qualcosa di speciale»
«Tipo cosa?»
«Non lo so, in realtà. Non mi ha mai detto di cosa si tratta. Ma il giorno in cui ha piantato i ginepri nel giardino era così felice che non ho potuto fare a meno di chiedergli perché avesse scelto proprio quelle piante tra tutte quelle che esistono. E lui mi ha detto solo che dentro le bacche di ginepro c’è un segreto». Poi ha aggiunto: «Tu sai cosa vuol dire segreto, no?». E non ne abbiamo più parlato.
A quel punto ho detto a Tempesta:
«Beh, a me basta solo che ci sia uno spazietto per me in mezzo ai ginepri di questo giardino per il resto delle mie notti».
«Me ne occuperò io. Parleremo col direttore, vero Iris?» ha sussurrato Tempesta rispondendo a me, ma cercando con gli occhi la sua gatta. Iris non era ancora riapparsa intorno a noi, e così Tempesta ha continuato:
«Chiederò a Doriano di piantare un altro ginepro qui di fronte, in modo che queste due piante siano i tuoi comodini. Che ne pensi?»
«Due piante? Non pensi che due comodini per un letto solo siano sprecati?»
Tempesta mi ha osservato perplessa. E io, senza rifletterci, ho aggiunto:
«Vieni anche tu. Perché non fai portare il tuo letto di fianco al mio?»
Tempesta è rimasta in silenzio e ha chiuso gli occhi. Mentre i suoi piedi erano ancorati nel terreno, con le palpebre serrate sembrava fluttuare altrove. Iris era tornata sulle sue spalle ora.
Deve aver percepito una vibrazione strana negli occhi di Tempesta perché è salita di scatto sulla testa della padrona, come per esercitare una qualche forza di gravità per vincolarla al suolo.
«Mi piacerebbe, sì» ha detto infine Tempesta, ma i suoi occhi erano ancora serrati in un modo che non avevo mai visto prima. Erano come prigionieri di una verità invisibile a noi umani. Non che Tempesta non fosse umana, ma era diversa dalle altre persone che conoscevo. Mi sembrava che avesse una scintilla d’incanto negli occhi che ne scandiva i pensieri.
«Che succede? Hai paura che Doriano non sia d’accordo?» le ho chiesto.
Tempesta ha esitato un po’, poi ha finalmente ha aperto gli occhi e ha detto:
«No, non è quello. Doriano è il direttore più comprensivo che avremmo potuto avere. È che se chiudo gli occhi vedo le stelle, non so se te l’hanno detto quando ti hanno ricoverato qui.»
«Non lo sapevo».
«Ecco. Avevo voglia di vedere qualcosa di bello per un po’, perché mi sono venute in mente cose disgustose mentre parlavamo, prima».
«Che c’è di brutto nel dormire insieme in questo giardino?»
«Non è dormire insieme nel giardino il problema. Anzi. È che se un giorno davvero starò così vicina a te e al tuo respiro, credo che prima o poi non potrò fare a meno di chiederti cosa è successo in quei dodici anni e sessantadue giorni».
III
“Ho scarnificato il mio rapitore. Mio figlio, che era bellissimo e di un’intelligenza straordinaria, mi aveva fatto capire che avrei dovuto farlo. Ma io, da sola, non ne avrei mai avuto la forza. Mio figlio leggeva così tanto. Era l’unica cosa che lo faceva stare bene. E l’unica, in effetti, che ha potuto fare in quel sotterraneo di reclusione. Non c’era la televisione, ma avevo ottenuto, dopo il primo anno, il compromesso dei libri. Mio figlio era brillante, ma è sempre stato piuttosto debole fisicamente. Aveva gli occhi blu oceano e la fronte alta, ma i suoi capelli erano molto folti. Di quei dodici anni e sessantadue giorni, lui ne aveva vissuti dieci. Le parole sono state tutto il suo mondo e lui, solo lui, è stato tutto il mondo per me. Mio figlio era solo mio. Me lo ha detto lui stesso. Nel giorno del suo decimo compleanno, mentre stavo preparando una marmellata con tutta la frutta marcia che avevamo nel sotterraneo, mi ha detto:
«Mamma, i figli sono di chi se ne prende cura, non di chi li fa. Quello non può essere mio padre».
Eccola, la forza che io non avevo più. Ho avuto un brivido rapido tra l’avambraccio e la scapola sinistra. In quel momento ho capito che se mio figlio era la mia mente, io dovevo esserne il corpo.
Dovevo sopperire alla sua debolezza fisica con tutta la rabbia che avevo tenuto nascosta fino ad allora per sopravvivere. È così che è andata. Quando io e mio figlio siamo riusciti a bilanciare le nostre energie, ci siamo liberati di quell’uomo. Quando era a terra, senza forze, gli ho gridato che l’inferno che ci aveva fatto patire fino a quel momento, per lui stava appena cominciando. Al processo ha avuto bisogno di un apparecchio acustico per sentire la voce del giudice. Ha trovato persino il coraggio di lamentarsi per le ferite da ustione che gli avevo inflitto. Ma la verità è che io non potevo far altro. Ormai ero ciò che lui mi aveva fatto diventare: un animale. Un’ora prima che tutto succedesse avevo lavato quasi due chili di prugne, le avevo asciugate, snocciolate e tagliate a pezzettini. Avevo versato lo zucchero insieme ai pezzi di frutta nella pentola che avevo messo sul fuoco e quando quell’uomo senza dignità è entrato nel sotterraneo stavo sterilizzando un barattolo in un’altra pentola di acqua bollente. Appena ha varcato la soglia della stanza, gli ho tirato in faccia quel barattolo di vetro con tutto il coraggio che avevo riesumato parlando con mio figlio quella mattina. L’ho colpito col vetro bollente nello spazio tra l’occhio e l’orecchio sinistro, ma una parte del timpano doveva essersi erosa con qualche schizzo d’acqua. Ero talmente schifata da quell’uomo che appena l’ho visto inerme ho iniziato a sferrargli tutti i calci che ho potuto sotto il ventre.
Ma non è finita così. Lui ha avuto uno scatto d’ira prima di svenire. Mentre strisciava sul pavimento dimenandosi dal dolore ha afferrato per una caviglia mio figlio che stava tentando di uscire dalla porta. Gli ha fatto sbattere il cranio sul pavimento. Ecco perché ho perso la testa quando ho avuto di nuovo una vita.”
IV
Io e Tempesta dormiamo insieme adesso. Lei mi racconta di tutte le scie luminose che vede ogni volta che chiude gli occhi, di giorno, mentre io preparo marmellate con le bacche di ginepro troppo mature. In tutti questi mesi, devo essere sincera, non ce l’ho fatta. Non sono riuscita a raccontare nulla di mio figlio né del mio rapitore a Tempesta. Sono solo stata capace di scriverne. I dettagli di come mi sono liberata di lui e di come lui abbia ucciso mio figlio sono tutti in una lettera che ho consegnato a Doriano.
E stamattina, come sempre, sono andata a fare una passeggiata in giardino per raccogliere un po’ di frutta per le mie marmellate. Ma quando sono tornata verso il mio letto all’aperto, ho trovato una busta sigillata appesa a una spina del ginepro che mi fa da comodino. Dentro c’era la risposta di Doriano.
«Mentre la tua vita accadeva io non c’ero. Non c’era Tempesta, non c’era Iris. Ma ora siamo tutti qui, tutti uniti in qualche modo dal dolore. Ti sono così grato per avermi raccontato il tuo segreto, non sai quanto. Io, nel mio piccolo, ne ho sempre conservato uno, a mia volta. È qualcosa che sta ben nascosto dentro le bacche di ginepro. Hai presente quando maturano, in questo periodo? Magari da fuori ti può capitare di vederle così viola e splendide e lucide, ma poi quando le assaggi potresti fare come ha fatto Iris quel pomeriggio mentre chiacchieravi con Tempesta, che scappi via da quanto sono acide e sgradevoli e pungenti. Eccolo il mio segreto. Credo che nella bellezza delle cose si possa nascondere l’amarezza delle nostre vite. È per questo che tutto il giardino qui è pieno di ginepri. Avevo bisogno di ricordare ogni giorno che non c’è niente al mondo che sia solo bello, pulito, meraviglioso. Ma la tua lettera va oltre. Mi ha fatto capire che, a volte, è vero il contrario. Cioè che dentro l’amarezza si può nascondere la bellezza. Le parole che ha pronunciato tuo figlio lo dimostrano. Pensaci, sono proprio quelle le parole che ti hanno trasmesso di nuovo l’energia per tornare a vivere una vita. Una vita autentica. E stavano nascoste dentro tuo figlio, come l’olio essenziale sta nascosto nei semi del ginepro».
Quando ho finito di leggere questa lettera, ho pensato che Doriano aveva ragione. Ho pulito le bacche dai gambi, le ho pesate e le ho messe in una casseruola. Erano quasi 100 grammi di frutta, stamattina. Di solito aggiungo alcune fettine di mela sbucciata e tanto zucchero quanti sono i grammi delle bacche, per fare la marmellata. Ma stavolta ho deciso che no, niente mele, niente zucchero. Ho capito che era il momento di vivere senza nascondermi più la verità.
Davide Ricchiuti (Benevento, 1980) è autore di racconti pubblicati da alcune riviste letterarie (Offline,
Risme, Il Foglio Letterario, Clean, Diario del Riccio, Rivista Blam, Grado Zero, La Seppia) e da antologie
come I giovani di Holden, Vol. 5 e Les Fleurs de Mars di Sergio Tanara. Ha esordito su ‘tina, la rivistina di
Matteo B. Bianchi e ha vinto il primo premio al concorso di Flash Fiction Officina Fake, Improbabile ma
non impossibile. È autore e voce narrante di alcuni podcast letterari tra cui Sommersi, Metamorfosi della
Cipolla, Capitolo Uno | Night Club Letterario e Sei tu, sono io, è la vita. I suoi racconti si possono ascoltare
anche su Spotify, nel podcast Te la racconto.