di Giuseppe Fiore
Quel giorno me ne stavo tranquillo, seduto su un muretto, pensavo ai fatti miei, non che ne avessi di grossi per la testa, ma qualcosa su cui ragionare c’è sempre, che sia trovare la spiegazione della morte o cercare di capire come far risplendere un lavandino, alla fine basta che il tempo passi.
Non ricordo esattamente cosa sfiorasse la mia mente in quel preciso istante, sentii solo un forte rumore, mi girai e vidi Marta, era stesa a terra, caduta da una bicicletta forse troppo grande per lei.
Corsi in soccorso, ma non si era fatta nulla di troppo grave, solo qualche ferita sul gomito, e pensare che con una caduta del genere certe persone finiscono in ospedale. Mi ha sempre fatto rabbrividire; viviamo costantemente con la consapevolezza che l’azione successiva potrebbe essere mortale, potrebbe essere l’ultimo secondo in questo mondo.
La ragazza non sembrava essere con tutti e due i piedi sulla terra, era rimasta stesa, senza dire nulla; io la guardavo dall’altro, come di solito si guardano i cadaveri e lei continuava a fissarmi, senza distogliere lo sguardo. Sembrava avessimo deciso di giocare a quel patetico gioco che dalle mie parti si chiama “Chi ride prima”, una roba che si fa con i bambini, giusto per far passare tempo, quando vuoi evitare qualche domanda a cui non sai rispondere o qualche argomento troppo complicato.
Io non avevo nessuna voglia di perdere tempo inutile, ero andato nel parco per farmi due passi, rimanere in silenzio, robe che si addicono alla mia personalità solitaria e con un continuo senso di colpa verso qualcosa, così allungai la mano per aiutarla a tirarsi su, ma nulla, quella continuava a fissarmi, mi sembrava quasi non respirasse.
Allora le dissi qualcosa, forse con una voce un po’ troppo sbrigativa, come se fossi quasi obbligato ad aiutarla, ma nulla, mi guardava e basta, questa è una con il cervello frantumato mi dicevo; così la salutai e mi allontanai.
Mi è sempre piaciuto aiutare gli altri, viviamo tutti insieme e dare una mano ci fa sentire migliori, in quella continua gara con i nostri simili, ma quella Marta non ne voleva sapere, maledetta lei e quella stupida bici troppo grande.
Dopo due giorni dallo strano evento, camminavo non ricordo bene dove, so solo che era già buio e a me non piace l’oscurità, non sai mai quello che nasconde; non siamo fatti per stare senza luce, altrimenti l’elettricità non avrebbe spopolato nel mondo.
Andavo di buon passo, proprio per la mia insana paura, quando sentii un rumore forte.
Mi girai e vidi Marco, un tipetto piccolino, steso a terra, caduto da una bicicletta troppo grande.
Andai in suo aiuto, sempre mosso dalla voglia egoista di dare una mano a qualcuno, ma tornammo a giocare a quel maledetto e noioso gioco degli sguardi. Stai impazzendo mi dicevo; vatti a far controllare mi dicevo.
Allungo una mano, gli chiedo se va tutto bene, ma nulla; forse ero diventato un fantasma, ero morto senza nemmeno accorgermene, sapete quelle storie di terrore in cui le anime rimangono sulla terra perché hanno ancora dei conti in sospeso o robe del genere.
Questo piccoletto sta fuori mi dicevo; non avevo tempo da perdere, mi voltai e tornai sui miei passi, maledicendo quel Marco e la sua bici.
Iniziavo a odiare la gente in bicicletta; camminate mi dicevo; la bici fa solo sudare mi dicevo.
Dopo qualche giorno stavo uscendo da un negozio, la strada era affollata, iniziai a camminare verso casa, uno strano rumore dietro di me, mi girai e vidi Sandrone steso a terra, caduto da una bicicletta troppo grande.
Sandrone era una bestia, alto e grosso, uno di quelli che è meglio rispettare senza dignità, ma la bici era una roba incredibile, mai vista una così grande, forse solo un gigante avrebbe potuto pedalare su quell’affare, il buon Sandrone sembrava un piccoletto rispetto a quell’oggetto bestiale.
Nemmeno a pensarci e subito inizia il gioco di sguardi, ma cosa diavolo sta succedendo mi dicevo; qua c’è qualcuno che ti tira un brutto scherzo mi dicevo.
Questa volta la mano la tenni a posto, ero sicuro che Sandrone come gli altri non avrebbe notato il mio aiuto, ma sempre meglio evitare; se si fosse aggrappato io, magrolino come sono, me ne sarei andato dritto a terra su di lui, meglio evitare mi dicevo.
La gente ci sorpassava, non sembrava proprio accorgersi di me o di Sandrone, della bici enorme, tutti camminavano silenziosi nelle loro bolle, senza distogliere lo sguardo dalla mattonella successiva.
Anche questa volta mi girai e tirai dritto verso casa mia.
Arrivato a tre stranezze non si possono più considerare coincidenze, vatti a far ricoverare mi dicevo; la solitudine ti ha mangiato dentro mi dicevo.
Iniziai a fare ricerche su internet, tanto si trova di tutto, dai pazzi ai laureati, ma di gente che vede cadute dalla bicicletta nessuno faceva menzione, ero unico, in un mondo sempre più simile.
Me ne rimanevo per la maggior parte del tempo a casa, quella situazione mi impauriva, non riuscire nemmeno a immaginare una spiegazione era per me incredibile; io che avevo passato la mia vita sotto la dittatura della razionalità, che prima di prendere qualsiasi decisione costruivo mille possibili realtà in cui sarei potuto finire, ero un calcolatore, e quella situazione non mi permetteva di fare nemmeno la più banale riflessione.
Ogni tanto guardavo dalla finestra e mi sembrava che la gente ormai usasse solo biciclette, mi sembrava che le macchine fossero state tutte distrutte da qualche scienziato pazzo e che ora l’uomo potesse muoversi solo pedalando e sudando.
Non ne parlavo con nessuno, non che avessi una schiera di amici pronti a sostenermi e ascoltarmi, ma nemmeno con mia madre, avevo paura che mi potessero mandare in manicomio; quelli ti prendono per pazzo mi dicevo; quelli penseranno che queste tue strane visioni derivino dalla perdita di Laura mi dicevo.
Un giorno andai al cimitero, ero rimasto chiuso in casa per due settimane e qualcuno doveva pur cambiare i fiori vecchi; so che può sembrare strano, ma l’idea che la lapide della mia amata Laura fosse sempre pulita e con dei fiori colorati mi rasserenava, la immaginavo su qualche piccola nuvola a sorridere vedendo i mosaici di colori che creavo con tutti i fiori che riuscivo a trovare.
Uscivo dal cimitero quando sentii il solito rumore dietro di me.
Mi girai e vidi una bimba stesa a terra, caduta da una bici troppo grande per lei.
Corsi verso di lei e iniziammo il vecchio gioco di sguardi, ma questa volta finì subito, scappai urlando come un pazzo, non riuscivo più a capire nulla, non capivo perché il destino o chi per lui continuasse a mettermi davanti quella scena così dolorosa; vaffanculo mi dicevo; non è giusto essere così cattivi con me mi dicevo.
Corsi a casa e mi buttai sotto le coperte, come per nascondermi da tutta quella assurda situazione, piansi come un maledetto isterico, per ore.
Nei giorni seguenti rimasi ore nel letto, senza nessuna voglia di fare nulla, di andare a lavoro o di chiamare mia madre, di sentire se la mia ex moglie si divertiva durante la sua vacanza al mare o se stava male anche lei, se pensava continuamente a Laura e alla sua piccola bicicletta rosa.
Ne avrei potuti creare di fiumiciattoli con le lacrime che ho tirato fuori in quel periodo, mi sentivo stanco di continuare a vivere in quel limbo di paura e malinconia in cui ero finito, dopo la morte della mia piccola bambina, della mia piccola principessa.
Come faccio a smettere di pensare a lei mi dicevo; tutto l’amore che avevo verso di lei, che quotidianamente le riservavo, che sudavo nelle lunghe passeggiate in bicicletta che fine doveva fare mi dicevo.
Quello era il problema, l’amore che continuava, per anni, ad accumularsi in me, senza una via di fuga, senza la mia bambina a riceverlo; ero convinto che si trasformava, l’amore, dopo un po’ di tempo, come l’acqua nel freezer, se la metti per qualche ora al freddo diventa ghiaccio, così se non doni quell’amore che accumuli diventa qualcos’altro, si trasforma, forse in follia pura, genuina o rancore, odio verso tutto, verso il genere umano, le biciclette, verso Dio che si era preso mia figlia, lasciandomi solo a diventare pazzo sulla terra lurida.
Un pensierino al buttarmi di sotto lo facevo spesso; tanto chi la sentirà la tua mancanza mi dicevo; almeno la finisci con questa storia delle visioni e basta mi dicevo.
La verità è che non avevo nemmeno il coraggio di buttarmi, nemmeno quella briciola di compassione verso me stesso, verso la bestia che stavo diventando; se poi è tutta una balla quella della vita dopo la morte mi dicevo; se poi ti butti giù e di tua figlia non puoi vedere nemmeno una foto, nemmeno i fiori colorati mi dicevo.
Lasciavo che il tempo scorresse, che passasse sotto i miei piedi come un nastro, veloce, che mi risolvesse lui i problemi, ma il tempo è lento, è bastardo, continuava a sfidare la mia pazienza.
Basta domani mi butto mi dicevo; ma nulla, non mi avvicinavo nemmeno alla finestra.
Un giorno andai nel garage e presi le due biciclette, quella mia, quella troppo grande per la mia piccola Laura e quella rosa, ancora con le rotelle attaccate, della mia bambina.
Rimasi per un po’ nel silenzio a guardare quei due oggetti bestiali.
Ricordavo quando Laura mi aveva chiesto di andare sulla mia bici, me lo chiedeva sempre, voleva sentirsi grande anche lei e poi era andata com’era andata; sei stato un padre di merda mi dicevo; ormai è morta mi dicevo.
Andai a comprare un martello, di quelli grossi, di quelli che se li hai in mano in un momento di rabbia puoi spaccare di tutto.
Entrai nel garage e iniziai a buttare tutta la mia rabbia su quelle biciclette, urlando e colpendo quella ferraglia, volevo che sparisse, che la terra mangiasse i suoi pezzi e li facesse per sempre scordare ai miei occhi.
Speravo solo che dalla sua piccola nuvola Laura non mi stesse osservando.
Speravo solo che non volesse iniziare a fissare i miei occhi come io le avevo insegnato tanti anni prima, per fare uno stupido e vecchio gioco che mi aveva insegnato mia madre.
Giuseppe Fiore, nato e cresciuto a Matera nel 98, ora studia a Parma comunicazione. Ama scrivere e vuole trasmettere emozioni.