Un fiume
Sdraiato: profilo fetale in quest’ansa stagnante.
Bagnato dal fluire putrido di questo fiume
m’incurvo, come un sopracciglio, in un riso
maligno e nervoso. Ferito da un colpo alle spalle.
Mangiare le unghie, le dita e una volta terminate
rosicchiare l’osso, a fatica, come avessi denti di legno.
Con lo stesso accento, la stessa inflessione nel pronome
e le stesse pause dici: “tocca il mio ventre”,
dici: “dispongo il mio bagaglio e vado fuori”.
Fosse nel nero di una buonanotte, saprei come orientarmi,
fosse in un capriccio d’estate, saprei come orientarmi,
ma tuttora è primavera e il sole si lascia ancora guardare negli occhi.
Nel comune vuoto planano gli aerei di carta
e si ammassano scheletri in questa insenatura.
Ci sono anche i detriti, i miei organi,
e un punto d’inchiostro che si è essiccato.
Darò una pulita a tutto, sì, e proverò a contare fino a dieci.
Uno strato di polvere si è ormai formato sull’ultima cosa detta.
I miei spiriti mi stuprano come si stupra un bambino;
quel bambino di quattro, cinque anni,
non di più. Mi racconta cos’è un mattatoio.
È come enorme tritacarne, dice,
Serve a mangiare, dice.
Però a me non piace pensarci quando sono a tavola, dice.
Sento il freddo in ogni nervo del corpo,
nella vena in bassorilievo che ho sul collo,
un freddo che si mischia col sangue e
mi lascia la sensazione che non mi scalderò più.
Mi avvolgo in una carcassa
come fosse un lenzuolo su cui hai giaciuto.
Si va verso la sera e la brezza diventa blu scuro,
alle porte di un altro anniversario
e nessuno che si arrischia a farmi un regalo,
di regali devo rifornirmi da solo e non ho più manco una moneta.
Indugerò. Cullerò il vuoto dei natali disabitati
che mia madre ha scandalosamente partorito.
Pastorale
Due bambini vogliono fare l’amore
e scambiarsi i nomi e i cognomi
come fossero figurine e perdonare
una stella fasulla, trascina un ago
che chiaroscura l’imbrunire.
“Mamma, Mamma regalami un soldino
a conservarne abbastanza mi farò una casina.”
E poi domenica dopo domenica
in punta di piedi affacciare in sacrestia,
capeggiare col prete la processione
e un altro soldino dalle devote
di gote rosse, avemaria.
“Mamma, se a notte attenuata non mi svegliassi nemmeno io,
sarà ancora estate per Andrea e tutti gli altri bambini?”
Lacrime calde, lacrime fredde,
rospi strillanti buttarsi nella discesa
di gote rosse, senza peluria.
Tanto era pura quella tristezza
che ogni altro sentimento si arrese.
Mamma di ciuffi d’erba, di piante e di canne;
mamma di suoni, ci si nascondono dentro.
Eppure, si muore ancora, muoiono tutti.
Di porta in porta. Una questua. Scostando i cadaveri
due bambini prendono una monetina dai salvadanai,
lasciando le altre per gli altri bambini.
Le case sono sporche e polverose
in qualcheduna piove dentro.
Hanno l’odore dei cassetti che non schiudevi da molto tempo,
nell’interno: il mazzo di carte incompleto mai gettato via.
Mamma a braccetto con lunghi anni fiaccati
a non vuotare il sacco. Ad accudire il fuoco,
se nella cenere c’è ancora fuoco.
Il bambino si rimette a grufolare nel bosco
e si addormenta nell’infossamento creato
dalla discesa notturna, a ruzzoloni, dei cinghiali.
Nella tristezza un brufolo di inesorabile
ottimismo, come solo il pensiero di un nuovo giorno.
Fabrizio Sani è nato in provincia di Arezzo nel 1994 e vive a Roma, dove si sta laureando in Editoria e scrittura alla Sapienza. La sua prima raccolta si intitola Si innamoravano tutti di me e io del loro amore (SuiGeneris, Torino 2018). È consulente dell’agenzia letteraria per l'agenzia di Laura Ceccacci. Recentemente ha vinto il Premio Ossi di Seppia e il Premio internazionale Alda Merini. Suoi testi sono stati inclusi nell'antologia InVerse 2020 (John Cabot University).