di Marco Daniele
Il sole batteva implacabile sull’angolo più remoto e inospitale del Rub ‘al-Khali.
Alieno. Se sir Walter Payne avesse dovuto cercare un singolo termine per definire il paesaggio che la sua spedizione aveva dovuto attraversare negli ultimi tre giorni, avrebbe scelto sicuramente “alieno”. Non c’era niente di questo mondo in quella sterminata distesa di sabbia che si protraeva fino all’orizzonte, un mare giallastro da cui era bandita qualsiasi traccia di vita vegetale, animale e umana.
Eccetto una.
Un occhio meno attento avrebbe potuto scambiarle per grandi rocce, erose dall’azione millenaria del vento, del sole e delle escursioni termiche – e chissà, forse anche della pioggia, ammesso che in quel deserto avesse piovuto qualche volta dall’alba dei tempi. Eppure sir Walter Payne non aveva avuto dubbi, fin dal primo momento in cui le aveva avvistate in lontananza: quelle erano le rovine che cercava. Le rovine della città di al-Ramal, già antica e abbandonata quando era fiorita l’altrettanto leggendaria Iram dei Pilastri, già vecchia e consunta quando le prime popolazioni semitiche di beduini avevano messo piede in Arabia, già decrepita e quasi dimenticata quando quelle stesse popolazioni si erano unite e lanciate alla conquista del mondo conosciuto.
Adesso che erano più vicini, i sette membri della spedizione britannica potevano ammirare le vestigia di al-Ramal, quei testardi superstiti che non si erano piegati completamente ai colpi dell’inesorabile scorrere del tempo e resistevano consumati, indeboliti, sbrecciati, parzialmente frantumati, ma resistevano. Quello che un tempo doveva essere l’arco d’ingresso nella città si ergeva ancora in piedi con fierezza, nonostante buona parte della cinta muraria circostante fosse sparita o ridotta a un mucchio di macerie informi. E spingendo lo sguardo oltre si vedevano resti di case, di botteghe, di magazzini, di templi dove la popolazione idolatra venerava un migliaio di divinità dai nomi ormai dimenticati, millenni prima dell’avvento dell’Islam.
Sir Walter Payne sentiva il cuore battergli a mille nel petto, a quella vista. Fece per smontare dal suo dromedario, ma la guida della spedizione, un beduino avvolto nei tradizionali panni bianchi della sua gente di nome Faizan, biascicò qualcosa nella propria lingua natale. Nonostante fossero parole incomprensibili, il capo della spedizione percepì distintamente una sfumatura di avvertimento, se non addirittura di terrore.
«Che ha detto?» domandò dunque al suo secondo, James O’Connor.
«Le solite puttanate a cui credono questi beduini a malapena civilizzati!» O’Connor era uno scozzese alto e grosso, rubicondo, senza peli sulla lingua ma nel contempo con la classica spocchia del britannico che guarda tutto il resto del mondo dall’alto in basso. «Dice che questa città è maledetta, che se ci entreremo non ne usciremo, bla bla bla… cose di questo tipo…»
Sir Payne conosceva bene la facilità con cui gli autoctoni bollavano come “maledetto” questo o quel sito, solo perché posto in una zona remota o edificato da un’altra civiltà. In trent’anni di viaggi per il globo terracqueo aveva avuto modo di sperimentare la cosa con gli Shona dello Zimbabwe, con gli indigeni micronesiani, con gli Indios dell’Amazzonia, con i pastori nomadi dell’Asia centrale. Anche stavolta liquidò le parole della guida come sciocche superstizioni e smontò dal dromedario.
Faizan fu subito pronto a raggiungerlo. Lo afferrò per un braccio e pur di fermare colui che ai suoi occhi appariva un folle incosciente, si sforzò persino di tirar fuori qualche parola in inglese: «No, signore! Lì male! Lì esseri malvagi! Non andare! Rovine maledette!»
Il beduino era pienamente convinto di quello che diceva, Walter glielo lesse negli occhi quando si voltò fugacemente verso di lui. Fece per dirgli di lasciarlo andare, ma O’Connor era già addosso all’arabo e con violenza lo strattonò, finché non lasciò la presa su sir Payne.
«Idiota di un beduino!» gli vomitò addosso. «Tu resta qui, se hai paura!» Il tono di voce cambiò completamente quando si rivolse con cordialità al comandante della spedizione: «Possiamo andare, signore».
*
Dimorava lì, da tempo immemore, un essere così antico da aver dimenticato persino il proprio nome e quelli con cui lo avevano chiamato di volta in volta gli uomini. Eppure ricordava ancora, in maniera confusa e nebulosa a volte, incredibilmente nitida in altre, il tempo lontano in cui si spostava da una città brulicante all’altra, abbattendosi come un falco sulla popolazione ignara e divorandola in un istante. Al-Ramal era stata l’ultima da lui distrutta e quando aveva finito non era rimasto più nessun insediamento nell’arco di chilometri, solo sabbia e ruderi.
Nell’epoca in cui aveva distrutto al-Ramal, l’essere era un orrore di proporzioni immani. Al suo passaggio il Sole si oscurava e la tenebra calava sul mondo, il sangue delle creature su cui si proiettava la sua ombra gelava istantaneamente nelle vene. Poi, nel corso dei secoli e dei millenni, si era consumato, si era ristretto, si era fatto sempre più piccolo. Non trovando null’altro da mangiare per saziare il suo pantagruelico appetito, si era stabilito nell’ultimo insediamento distrutto e aveva assunto un tenore di vita quasi completamente sedentario. A volte passava interi secoli immerso in uno stato intermedio tra il sonno e la veglia, un torpore in cui era cosciente della propria esistenza ma era come se non avesse più un corpo. Le immense ali si erano rinsecchite, impedendogli per sempre di spiccare ancora il volo. Aveva perso molta della sua originaria grandezza, ma restava comunque un’entità fisicamente imponente, che avrebbe fatto impallidire qualsiasi uomo.
Gli uomini, già… ogni tanto qualcuno capitava ancora in quelle rovine e l’essere era pronto a ghermirlo. Come pasto non era paragonabile alle scorpacciate dei tempi antichi e non riusciva mai a estinguere la fame perenne che gli stringeva le viscere, ma era meglio di niente.
Quel giorno, mentre se ne stava rannicchiato nel salone di quello che un tempo doveva essere stato il palazzo di un re o di un principe, l’essere percepì l’odore di sei uomini. La fame tornò improvvisamente a farsi sentire come un crampo doloroso e tuttavia piacevole, perché era la prima volta nell’arco di decenni che l’entità oscura provava qualcosa.
Con una rapidità inusuale per un essere di tale stazza, la massa oscura sorretta da miriadi di zampe scivolò senza fare rumore sul pavimento sbrecciato dell’antico palazzo. E da lì uscì nelle vie polverose che non sentivano più la risata di un bambino o il richiamo di un venditore ambulante da prima che la più antica civiltà nota all’uomo del XIX secolo vedesse la luce in Mesopotamia o in Egitto. L’intricato reticolo di strade e stradine di al-Ramal sarebbe apparso un labirinto a chiunque vi avesse messo piede per la prima volta, ma la creatura per sua fortuna conosceva quella città a menadito. Conosceva ogni singola pietra, ogni singolo muro, ogni singola costruzione ancora in piedi e sapeva come muoversi sfruttando il riparo che ognuna di esse poteva offrirgli.
Non gli fu difficile aggirare il gruppetto di intrusi per piombare alle loro spalle. Man mano che si avvicinava, sentiva la loro presenza farsi sempre più consistente, il loro odore sempre più forte. Adesso poteva sentire distintamente il battito dei loro sei cuori… sei cuori che presto avrebbero smesso di battere. Dischiuse lentamente il doppio becco coriaceo che celava un’orrenda cavità orale ricoperta da innumerevoli file di denti seghettati, preparandosi a scattare non appena si fosse avvicinato a sufficienza.
Superò l’ennesimo angolo di una vecchia torre parzialmente sbriciolata e… scattò, puntando all’ultimo della fila.
*
James O’Connor si accasciò contro il muro, ansimante dopo la lunga corsa in cui sperava di aver seminato il suo inseguitore.
Era accaduto all’improvviso, inaspettato come il proiettile di un tiratore nascosto tra le fratte. Stavano percorrendo quella che aveva l’aria di essere la via maestra di al-Ramal quando Fred Graham si era messo a urlare dal fondo della fila, un attimo prima di scomparire schiacciato da una massa nera, l’animale più orrendo che James avesse visto. Ammesso che fosse davvero un animale, e l’esploratore ferito ne dubitava ogni secondo di più. Di sicuro era la cosa più terrificante che avesse mai visto e paradossalmente non avrebbe saputo descriverne con precisione l’aspetto o la forma: se ci ripensava, gli appariva ora come un porcospino con decine e decine di zampe da insetto, ora come un serpente coperto da lunghi e ispidi peli, con un becco tozzo e pesante simile a quello di certi molluschi cefalopodi. Qualsiasi cosa fosse, era molto, molto più grande di un porcospino o di un serpente o di un polpo, abbastanza grande da schiacciare senza problemi un uomo adulto.
Quella vista degna dei peggiori incubi partoriti da Füssli non aveva minimamente intaccato la flemma scozzese di James O’Connor, che lesto aveva tirato fuori una pistola e aperto il fuoco sulla bestia. E così avevano fatto anche Hopkins, Clark, Willis e sir Payne, fidando nel fatto che quattro rivoltelle avrebbero dato il benservito a qualsiasi aggressore. Ma non era servito a nulla: le pallottole erano rimbalzate sulla misteriosa creatura e Willis aveva presto seguito Graham come seconda porzione.
Vedere un uomo orrendamente dilaniato da quel becco e da quelle zampe era stato troppo per James. A quel punto tutto il suo coraggio, tutto il suo ardore erano venuti meno. Pensando solo a salvarsi la vita, si era voltato dall’altra parte e aveva iniziato a correre, senza mai fermarsi. Non sapeva in quale direzione si trovasse il portale d’accesso sotto cui erano passati per entrare nella città, ma una cosa era certa: doveva mettere fra sé e il mostro quanta più strada possibile. E doveva sperare che Clark, Hopkins e sir Payne lo rallentassero abbastanza. Magari si sarebbe saziato e non avrebbe proseguito la caccia.
James non sapeva nemmeno quanto avesse corso, quando decise di fermarsi. Sapeva solo che non poteva più andare avanti, che il suo corpo meritava una piccola sosta, altrimenti sarebbe morto comunque di spossatezza.
Dopo qualche secondo, reggendosi contro il muro, si tirò su e si guardò attorno. Nessuna traccia del mostro, almeno fin dove poteva spingere il proprio sguardo. E non si sentivano nemmeno rumori di passi o versi bestiali, solo il soffio del vento che soffiava e si infilava nelle brecce aperte nei mattoni, nelle pietre di al-Ramal.
Un pensiero rincuorante gli fece strada nella sua testa. Sono vivo! Sono vivo! Sono…
La sabbia sotto di lui si aprì e decine di zampe artigliate lo afferrarono e penetrarono le sue carni, mentre il becco del divoratore di al-Ramal si spalancava per accogliere l’ultimo dei sei pasti di quella giornata.
*
Il sole batteva implacabile sull’angolo più remoto e inospitale del Rub ‘al-Khali.
Faizan si voltò un’ultima volta verso le rovine di al-Ramal, chiedendosi se le urla che sentiva in quel momento fossero di sir Walter Payne o di James O’Connor. Non gli sarebbe dispiaciuto sapere che lo spocchioso scozzese era stato ucciso per ultimo, dopo aver provato fino in fondo l’orrore che derivava dalla consapevolezza di essere soltanto un misero pasto di un orrore vecchio di millenni.
Marco Daniele è nato a Mottola nel 1990 e risiede a Taranto. Dopo gli studi classici si laurea in Lettere moderne a Lecce e consegue un dottorato di ricerca in Letteratura italiana contemporanea a Bari. Attualmente insegna italiano e storia nelle scuole secondarie.Lettore onnivoro con una predilezione per la grande categoria del fantastico, collabora con il sito Recenserie in qualità di recensore di serie televisive. La sua prima raccolta poetica uscirà prossimamente per la casa editrice Bertoni.