di Arianna Cislacchi
La prima volta che la vidi avevo cinque anni. Era una fredda notte d’inverno e non riuscivo a dormire. Continuavo a rigirarmi nelle coperte, spaventato dal rumore dei tuoni; da sotto il cuscino spiavo in direzione delle finestre: oltre le tende, filtrava una luce sottile.
Quella notte la ricordo come se fosse ieri. All’ennesimo rumore mi alzai trascinando Thomas, il mio dinosauro di peluche, e in punta di piedi corsi in camera dei miei genitori, attento a non farmi sentire dai mostri sotto al letto. Il corridoio portava dritto nella loro stanza; tra le braccia di mamma e papà ogni cosa si sarebbe risolta: per me erano come dei supereroi, capaci di far scomparire tutte le creature malvagie del mondo.
Stavo per afferrare la maniglia, ma mi accorsi che la porta era socchiusa. Entrai piano piano, facendo segno a Thomas di non parlare; non ero certo che potesse dormire anche lui nel lettone, quindi dovevamo essere cauti e non farci scoprire.
Tutto era buio intorno a me, le tapparelle appena alzate creavano un intimo gioco di luci.
Rimasi fermo per un po’, senza sapere bene cosa fare. Nell’aria si sentivano strani rumori. Feci un paio di passi, trattenendo il respiro. La mia bocca si allargò in un sorriso enorme, tutti quei movimenti mi sembravano una grande avventura. Non appena toccai le coperte, la luce dei fulmini si fece più forte: tutto venne illuminato per pochi secondi, e la stanza tremò.
Papà era steso sul letto a pancia in su, e sopra di lui c’era una donna. Una donna che non era mamma. Una donna dai capelli rossi. Li guardavo, senza capire. Thomas mi cadde dalle mani e fece un rumore sordo, quasi assente, ma fu abbastanza per distrarre quelle due figure che si abbracciavano sussultando nella penombra. In quell’istante, ogni cosa divenne nera.
Ricordo solo mio padre che spostava via quella signora, mi afferrava le spalle cercandomi il viso, piangendo, accarezzandomi le guance; poi, sollevò il mio corpo da terra stringendolo tra le braccia, portandomi via da lì, mentre mi chiedeva scusa mille volte ancora. Lei singhiozzava, coprendosi il viso con le mani.
Io non sentivo più niente, fissavo solo il mio peluche a terra e piangevo perchè lo volevo. Datemi Thomas, vi prego. Datemi Thomas. Papà correva lungo il corridoio, mi portava in camera, chiudendo la porta con sé e cominciando a farmi discorsi difficili. Seduto sul letto con le mani di papà che premevano sulle mie, fissavo il vuoto. Papà parlava, ma io non sentivo nulla. Thomas era il mio unico pensiero. Ridatemi Thomas. Cominciai a gridarlo. Singhiozzavo, mi mancava l’aria. Poi, la voce divenne un sussurro. E alla fine, cominciai solo a pensarlo. Le parole non uscirono più. E nemmeno le lacrime.
Gli anni passarono e io avevo smesso di parlare. Nessuno avrebbe mai immaginato una conseguenza simile. Quella visione, mi spinse giù in un baratro sconosciuto. Non potevo immaginare quel che mi sarebbe successo col tempo, ma di una cosa ero certo: che da quella notte, non avrei più creduto nei supereroi.
A distanza di tredici anni, non riesco ancora a parlare. Ho imparato la lingua dei segni, e tutti intorno a me provano a comunicare come possono. Chi apprendendo i gesti, chi scrivendo su un foglio, chi prendendomi in giro. Sto seguendo diverse terapie, vengo perennemente stimolato perchè io muto non ci sono nato. La mia voce è un ricordo lontanissimo, ma a tratti, nei sogni, mi sembra di risentirla.
Vivo ancora con mio padre. Da quella notte precisa, non fece più entrare in casa la donna dai capelli rossi. Col passare degli anni, papà mi spiegò che era stata solo un’avventura; a volte può succedere, anche tra genitori. Accadono cose che ti fanno scivolare in errore, ma non per questo mamma e papà sono brutte persone. Anche la mamma, ne aveva commesso uno molto simile. A quella spiegazione, risposi con una semplice alzata di spalle. Ero diventato apatico. Non mi importava un granché di nessuno di loro.
Mia madre se n’è andata via di casa già da un pezzo. L’avevo rivista il giorno dopo l’accaduto, e fu l’ultima volta. Scoprii che le sue assenze non erano legate al lavoro. Dopo avermi dato un bacio, prese il treno e raggiunse la sua seconda famiglia, a mille chilometri da qui.
A distanza di tredici anni, una mattina d’inverno di quinta liceo sono qui che rimugino sul passato, quando entra nella nostra classe una donna. Pare sia la supplente di scienze e starà con noi il trimestre intero. Quando appare, un dettaglio mi risveglia qualcosa: i capelli. Li ha lunghi fino a metà schiena, rossi e ondulati. Nonostante l’età, è ancora una bella donna. Ha una fisionomia graziosa, sembra molto più giovane. Le labbra hanno un filo di rossetto, e gli occhi a mandorla una punta di trucco. Mi sembra impossibile cogliere certi dettagli che da bambino avevo solo visto in penombra. Quando inizia a fare l’appello, la vedo sussultare: legge il mio nome e i nostri sguardi si incrociano. Per un momento il tempo ritorna a quella notte; lei sa chi sono, non solo per il cognome. Ha visto qualcosa nei miei occhi, un’ombra torbida, lucida che aveva colto anni prima negli occhi di un bambino.
Suona la campanella, e finalmente finisce la lezione. Mi alzo con lo zaino in spalla e le passo davanti facendo finta di niente. Poco dopo nel corridoio, il rumore delle mie suole si accompagna all’eco di un tacco che avanza sempre più veloce, in crescendo, come una melodia. Mi sento afferrare per il braccio.
Il corridoio della scuola si è svuotato, è ora di pranzo e tutti si sono rifugiati in mensa. Mi giro quel che basta per darle il profilo. La donna dai capelli rossi mi fissa a lungo, nervosa. E lascia la presa. Per un momento soltanto, arrossisce. E capisco il perchè. Non sono più il bambino piccolo, indifeso e smoccolante di quella notte. Davanti si è ritrovata un giovane uomo più alto di lei, dalla corporatura spessa e un’espressione da cacciatore silenzioso.
«Marco, sei proprio tu. Sembra… quanto sei cresciuto, accidenti. Non ti vedo da…»
Rimango in silenzio, guardandola come se fosse la cosa più insignificante del mondo. E lei si sente ancora più piccola. Non posso fare a meno di notare il suo sguardo malinconico che mi studia da capo a piedi, non si perde nemmeno un dettaglio di me, dalla barba alla maglia appena stretta sul petto. Come se non se ne facesse una ragione. Come se si aspettasse di vedermi sempre piccolo. Compio un paio di gesti per comunicare, ma lei sembra non capire bene il linguaggio dei segni. Le sorrido e lei si illumina.
Faccio cadere lo zaino a terra e la spingo contro il muro; la blocco lì e la osservo: le lascio un varco dove può rifugiarsi e sgusciare via, ma lei resta inerme e mi fissa con occhi diversi, diventando ancora più rossa. Le mie dita le sfiorano il collo, la accarezzo fino a passare dietro la nuca, lungo i capelli. Vedo il suo petto alzarsi e scendere. Posso percepire tutte le sue emozioni, come quella notte. Il desiderio, la sconsideratezza, la sorpresa. Il mio sorriso si accentua, poi faccio forza stringendo la mano a pugno: in quell’istante la mia espressione cambia. Tiro quel che basta per scatenarle tutti i miei tredici anni in quel minuscolo strattone. Lei non si oppone, ma le iridi buie mostrano un’emozione diversa: la paura. Non le voglio fare niente; ma mi accorgo che la presa si fa più forte e violenta. Il mio corpo agisce scindendo dalla mia volontà. Sento il cuore esplodermi, la rabbia ribollire dentro; un pianto, lungo il viso. La gola mi brucia, comincio ad aprire e chiudere la bocca e vengo improvvisamente investito da qualcosa di terribile. Urlo con tutto il fiato che ho in corpo, sento crescere la voce che è rimasta sopita per tutto quel tempo interminabile, eterno. Gliele vomito in faccia quelle parole, mentre disperatamente le strattono il capo.
«Ridammi Thomas!»
Arianna è nata ad Albenga nel 1991. Vive a Torino ed è laureata in Scienze dell’educazione; nel tempo libero scrive articoli per una rivista ambientale, dipinge e gioca a d&d. Ama Murakami e i romanzi russi. Alcuni suoi racconti sono apparsi o appariranno su: Antologia “Racconti dal Piemonte 2020”, Voce del Verbo, Spore, Narrandom, Cedro Mag, Il Fuco, Mirino, Tremila Battute, Sguardindiretti, Malgrado le Mosche, Micorrize, Rivista Blam, Formicaleone.