di Giulia Quinzi
Illustrazione di Ottavia Marchiori
«Amorcito, ti ricordi cosa devi dire se ti prende la policía dei gringos?»
«Devo dire che sono solo e che non ho nessuno. Che i miei genitori sono morti.»
«Muy bien, niño. E perché devi dire così?»
«Perché così non possono farmi tornare indietro.»
«Non possono farti tornare indietro, perciò resterai en los Estados Unidos. Bello come sei ti adotteranno subito. Una famiglia di gringos ricchi e gentili ti adotterà e avrai una bellissima e felicissima vita da yankee, felicissima e fortunata.»
«Mami, ma perché tu non vieni con me?»
«Mi amor, perché se vengo con te e ci fermano poi dobbiamo tornare indietro tutti e due, invece tu da solo puoi andare. Da solo tu ce la farai. Recuerda, sei un ragnetto fortunato.»
«Mami, e tu che farai a Tapachulita senza di me?»
Le voci di una preghiera distraggono Jesús. Per fortuna non è costretta a rispondere alla sua domanda. Leticia ha ventitré anni; è una messicana bassa e grassa con gli occhi tristi. Sembra ancora una bambina ma invece è già una donna. Ed è pure coraggiosissima. Tutta intenta a prepararsi per vedere andare via la sola cosa che le resta nella vita. L’unica cosa che è mai stata veramente amata e sua. Quel niño di otto anni che è già più alto di lei. Così bello che se ne sente orgogliosa. E lo ama tanto da obbligarsi a mandarlo lontano, dove sarà felice e ricco, dove avrà tutto quello che lei non ha potuto dargli.
Lei tornerà a Tapachulita. E sul resto è meglio non farsi domande.
«Señor, nuestra vida está en tus manos. Protege nos, Quédate con nosotros…» invoca in coro un gruppo di hondureños. Si tengono per mano in circolo e hanno tutti la testa china e gli occhi chiusi. Lungo i lati del binario, vicinissimi alla ghisa arrugginita delle rotaie che corrono verticali sul terreno, alcuni uomini stanno mangiando riso. Più in là altri sonnecchiano con la testa appoggiata sulla propria giacca, che hanno ripiegata a modo di cuscino. Sotto il cielo nero della notte tutti aspettano. La Bestia non ha orari fissi. È impossibile sapere a che ora arriva. Nessuno sa nemmeno in quale giorno passerà. Sotto il cielo nero della notte, con una luna orizzontale che sorride a Palenque ― e a volte sembra complice, a volte solo cinica e crudele spettatrice ― Leticia abbraccia Jesús. Lo fa sedere a terra. Vorrebbe trovare un albero a cui appoggiarsi, o almeno un cespuglio vicino al quale poter ricordare per l’ultima volta suo figlio. Ma accanto a quelle dannate rotaie, in quella dannata terra non c’è niente. Solo le nuvole, e un dannato caldo da togliere il fiato. L’unica cosa che c’è è un binario che corre dritto per migliaia di chilometri, verso nord. Lontano, dove magari c’è un futuro, altrove, dove forse esiste la fortuna. Il Chiapas è una terra di dannati con i denti marci, è una terra dove i bambini non crescono e i morti sono ancora tutti tra i vivi. Morti vecchi, morti giovani, morti suicidi. Morti bambini, morti di incidente e morti scomparsi.
Alcuni sono buoni e ti proteggono, altri aspettano solo di prenderti con sè.
Il Chiapas è una terra dove ai vivi è rimasta solo la dannata voglia di morire. E i più coraggiosi fanno di tutto per andare via.
Jesús si siede in mezzo al niente. Leticia ha voluto che indossasse la maglietta nuova che gli ha comprato. È una polo blu a maniche lunghe, con righine sottili bianche e rosse.
«Devi mettertela perché così quando gli Yankees ti vedranno penseranno che sei il Chuy più bello di tutto il Messico, e allora vorranno adottarti subito.»
Invece i jeans che indossa sono un po’ sporchi e tutti consumati, con uno strappo verticale sotto al ginocchio.
«Ma tu basta che sorridi e nessuno ci farà caso.»
«Mami, ho tanta fame. Possiamo mangiare qualcosa?»
È dalla mattina che Jesús e Leticia sono a digiuno.
«Va bene niño, ma ricordati quello che ti ho detto. Nei prossimi giorni per te trovare da mangiare sarà difficile, perciò dovrai essere forte, e resistere più che puoi. Senza spaventarti.»
Leticia tira fuori dalla sua borsa un sacchetto di plastica e spezza il pane de los muertos che ha portato con sé. L’aria si riempie dell’aroma dell’anice, e di quello fresco dell’acqua dei fiori d’arancio. La festa dei morti è appena passata, e Jesús ripensa agli altari caotici e pieni di offerte. Gli torna in mente che lo stesso odore appuntito di anice per tutti i giorni della festa si confonde al giallo e all’arancione dei cempasuchiles, al profumo caldo e dolce delle candele che affolla ogni strada. Ricorda la musica suonata, sempre così allegra. Ricorda le processioni felici di maschere colorate. Pensa agli scheletri dipinti e pieni di fiori. Poi pensa alla morte. Che aleggia silenziosa tra tutti quei festeggiamenti.
«Mami, ho tanta paura. Non so se sono capace di salire sulla Bestia. E non so neanche se sono in grado da solo di superare il confine e arrivare a los Estados Unidos.»
Un viejo dietro di loro che non avevano sentito arrivare ― magari dormicchiava lì accanto senza che se ne fossero accorti ― si intromette nel discorso. Sembra vecchissimo, eppure è come se non avesse un’età. El viejo vuole rassicurare Jesús, e la sua voce sembra venire da lontano.
«Non è difficile niño, salire sulla Bestia. Ti avvicini correndo, poi ti aggrappi con le mani alla scaletta di un vagone e con un salto poggi i piedi su uno dei pioli. Devi solo fare attenzione».
Il suo viso è pieno di macchie, e indossa un cappello con la tesa all’insù. Ha gli occhi come due pozzi, lunghi baffi d’argento, e la camicia si gonfia di vento come fosse vuota, tanto il viejo è vecchio e magro.
«Ma cosa succede se non riesco ad arrivare alla scaletta? Oppure se casco dal dorso della Bestia? Come faccio se sono solo e nessuno mi aiuta?»
«Hombre, sei grande, non hai più bisogno di aiuto. Ormai è tempo che tu vada avanti da solo, e io so che ce la farai». Così dice el viejo, e con la mano sfiora gentile la fronte di Jesús. Poi el viejo prende il suo cappello e lo posa sulla testa di Jesús. È troppo grande per lui, e la tesa gli cade sul naso. Mentre prova a sistemarglielo sulla nuca, e stringe il laccetto sotto al collo sottile del niño, gli dice: «Sul dorso della Bestia, quando attraverserai la giungla, il sole sarà caldissimo. Devi ripararti se non vuoi stare male.»
Si sente un fischio lungo e lontano. Poi il rumore di sbuffi, e il cigolio di ferraglie che si avvicinano. Preannunciata dal sinistro chiasso della carcassa che avanza come fosse un fantasma, fa la sua comparsa nel nero della notte la Bestia. Prima i fari enormi e bianchi, poi la testa e i vagoni neri. Di un nero così nero che è più nero del nero della notte.
La Bestia è un treno merci con decine di vagoni pronti a strapparti le gambe alla prima disattenzione. Cammina sulle rotaie dei suoi morti, che nessuno sa contare.
«Ecco il treno!» urla Leticia.
«Ecco la Bestia!» urla Jesús.
«Mi raccomando, ricordati: devi correre, afferrare la scaletta e poi saltare» dice el viejo.
«Te quiero, mi amor» dice ancora Leticia, e sta piangendo.
Jesús vorrebbe dire anche lui ti voglio bene, vorrebbe dire mi mancherai, vorrebbe dire ho paura. Vorrebbe dire non mi lasciare, voglio rimanere qui con te, come faccio da solo e tante altre cose. Ma tutti questi pensieri si confondono sotto al cappello e l’unica cosa che riesce a fare è piangere come Leticia. Ma in modo diverso. Come quando era ancora piccolo. Il treno è quasi davanti a loro. Ormai deve iniziare a correre. Jesús abbraccia Leticia. Si asciuga il viso con la manica della sua polo e torna subito hombre, proprio come lo ha chiamato el viejo. Poi via di corsa, e al terzo vagone che gli passa davanti è già riuscito a montare sulla Bestia. Si gira e vede sua mamma che gli sta mandando un bacio. Il niño vorrebbe salutare anche el viejo; vorrebbe fargli un cenno con il cappello come un vero caballero messicano. Ma nel buio della notte, sotto la luna che sorride a Palenque, il viejo è già scomparso.
Giulia Quinzi è nata a Roma, classe ‘94. È laureata in filosofia e ha conseguito un master in curatela dell’arte contemporanea. Segue un corso di scrittura creativa alla scuola Omero e ha pubblicato su Magò.