di Flavia Catena
Illustrazione di Emanuele Liguori
«Stancarsi? No, non ci si stanca davvero» mi rassicurò una collega, il giorno in cui entrai in ufficio. «Ci si annoia, ma non è poi così male».
Mi venne assegnata una scrivania. Era in fondo a una grande stanza dalle pareti grigie, senza quadri; poche le finestre, strette come feritoie, si aprivano davanti alle fotocopiatrici e alle stampanti. La luce toccava solo quelle; noi lavoravamo tutti nell’ombra. Quando poco più tardi incontrai il direttore, capii che a lui era offerto lo stesso privilegio delle macchine. La sua scrivania, e di conseguenza il suo corpo, davano le spalle a un ampio balcone da cui si dominava su un cielo sconfinato e senza nubi.
«Avanti, avanti» mi disse, quasi spazientito, vedendomi immobile sulla soglia.
Abbagliata dal sole, avevo chiuso gli occhi fermandomi per un momento. L’aura luminosa che fluttuava sulla sua testa mi apparve prima della sua faccia barbuta, non appena li riaprii. Allora mi avvicinai, tendendogli la mano; lui si affrettò a porgermi il contratto, la penna, e attese che firmassi per congedarmi.
«Benvenuta e buon lavoro!» aggiunse, mentre io indietreggiavo, quasi fossi al cospetto di un re.
Il suo volto scomparve nella luce e mi sembrò che solo il riso, con cui forse reagì a quel mio strano comportamento o alle carte che aveva ripreso a leggere, gli fosse sopravvissuto.
Tornata in ufficio, sedetti alla scrivania e iniziai a timbrare i documenti che mi vennero assegnati. Per i primi mesi – quanti non lo sapevo – sarebbe stato quello il mio lavoro quotidiano. Con mano ferma e occhi puntati sul foglio, apposi il primo timbro. Guardandolo da vicino, mi ricordò quello della biblioteca che frequentavo da bambina, nel paese dei miei genitori.
«Perfetto. Brava!» si complimentò il superiore che mi teneva d’occhio.
Incoraggiata, andai avanti, con appena venti minuti di pausa, dalle dieci del mattino fino alle cinque del pomeriggio, una pagina dopo l’altra, per un totale di centodieci documenti.
Quando, a turno finito, sollevai nauseata la testa dalla scrivania, la vista mi si offuscò, e quasi non mi accorsi che un omino dal naso aguzzo e i capelli radi stava prendendo la pila dei miei fogli per accumularli, con gli altri, su un tavolo in fondo alla stanza.
«Come va?» mi domandò la collega con cui non avevo scambiato parola dal mattino «Stanca?»
«Un po’» risposi, stropicciandomi gli occhi e guardandola come se volessi mettere a fuoco, su di lei, i miei pensieri.
«Andrà meglio, vedrai».
Allora la vidi prendere la mia giacca dall’attaccapanni e porgermela. Schiacciato contro un largo scialle blu, il suo viso mi apparve bianchissimo. Notai i suoi occhi cerchiati di nero e le labbra secche. Bevve il fondo di caffè che restava nella sua tazza e sorrise, mostrandomi i denti macchiati. Le avevo chiesto come si chiamasse, ma me n’ero già dimenticata, e quando mi salutò, pronunciando il mio nome, io mi limitai a fare un piccolo inchino col capo.
La stanchezza provata quel primo giorno e nei giorni successivi esplose a fine settimana, facendomi trascorrere il sabato e buona parte della domenica in uno stato quasi febbrile, alterato. Andò meglio il lunedì seguente, meglio ancora il martedì. I mal di testa, le vertigini e la nausea provata all’inizio, passarono. Eppure restava un senso di smarrimento e di vuoto a cui non associavo alcuna malattia o ansia già provate. La concentrazione messa sui fogli, sul timbro inchiostrato per bene, apposto senza fretta, faceva sì che il tempo trascorso in ufficio scorresse senza troppi intoppi. Il fastidio lo avvertivo soprattutto a casa. Fino a poche settimane prima, mi sarebbe stato sufficiente leggere un libro, spingere gli occhi oltre la finestra della mia stanza, lì dove al nero asfalto si sostituiva il verde dei giardinetti pubblici, per sentire la mia mente tornare piena e vibrante, com’era sempre stata.
La noia che la mia collega, quella il cui nome continuava a sfuggirmi, mi aveva anticipato, la riconobbi allora. Capii da subito che era lei la responsabile del mio malessere. La sentivo crescere dentro di me come qualcosa di fisico e, dopo avermi gonfiata e appesantita, svuotarmi completamente. Il fastidio partiva dallo stomaco; somigliava alla fame, ma non era il cibo che desiderassi, quanto i pensieri, quelli che mi sfuggivano tanto più cercavo di afferrarli.
Mi ero ammalata di noia, noia cronica. E sembravo essere l’unica. Di certo ero l’unica, in ufficio, che mettesse in dubbio il senso del nostro lavoro e i suoi effetti sulle nostre vite. Nessuno sapeva cosa contenessero i documenti che timbravamo – d’altra parte, erano illeggibili, scritti in una lingua fatta di termini tecnici mai incontrati altrove – o che fine facessero. Si diceva che andassero a quelli del piano sopra il nostro, per poi passare, di ufficio in ufficio, fino al direttore, l’uomo aureolato che mi aveva assunta. E da lui non era chiaro se finissero direttamente in mani divine.
Che lo si ammettesse o no, avevamo tutti la stessa espressione, lo stesso colorito spento; a tutti tremavano un po’ le gambe, e c’era chi, ad essere interpellato su una faccenda qualunque, scuoteva la testa come se cercasse di svegliare la ragione addormentata lì dentro.
«Non è il lavoro più stimolante che ci sia» sentii dire un giorno a un collega «A me basta tornare a casa, cenare con un buon piatto di pasta, e poi leggere qualche favola a mio figlio. Quella è l’unica cosa a cui penso durante il giorno, la mia ricompensa».
Ma io non avevo figli, non un compagno, un marito, non un’amica capace di ascoltarmi davvero. Mia madre e mio padre erano lontani; mio fratello viveva in un’altra nazione. Chiamarli, sentirli al telefono, non mi aiutava come quando da ragazzina, in lacrime, elencavo loro i miei dispiaceri, e me ne sentivo, in parte, già liberata.
Passarono così altri due mesi, e quando anche il mio tempo libero venne rovinato da quella continua mancanza di energia, di stimoli, da un deperimento fisico e psicologico, presi la decisione di lasciare il lavoro. Non fosse stato per il sorriso che il direttore mi scoccò addosso, come una freccia infuocata, ci sarei riuscita. Le mie ragioni, le mie necessità, presentate con estrema chiarezza, vennero fatte a pezzi da quella sua espressione placida e da quell’iniziale silenzio a cui seguì:
«Si prenda una settimana di ferie. Poi ne riparliamo».
Trovando impossibile contraddirlo – lo volevo, ma la voce non mi uscì dalla bocca – accettai i giorni di ferie che mi vennero offerti e decisi di trascorrerli a casa, dedicandomi a tutto ciò che in quei tre mesi non ero riuscita a fare. Eppure quel senso di svogliatezza, di vuoto che mi portavo dietro, non se ne andò. In qualunque attività mi gettassi a capofitto, quasi con disperazione, ritrovavo quei movimenti, quel modo di pensare, o meglio, di non pensare, della donna lavoratrice, della macchina timbra-fogli. Ogni notte, in quella settimana di ferie, sognai di morire soffocata da una grande, immensa pagina bianca. E il giorno in cui feci ritorno in ufficio ci andai vicino.
La collega che chiamai Carla, quando il suo vero nome era Gloria, mi baciò rivedendomi; qualcuno mi fece un cenno da lontano, qualcun altro lo sentii salutarmi per la prima volta. Sembravano tutti stranamente entusiasti, non tanto perché fossi tornata, ma perché qualcosa era cambiato. Lo capii poco dopo: i documenti, le carte da timbrare, non erano gli stessi. Erano vuoti, pagine completamente bianche, senza l’ombra di una parola.
«Trovo che sia più rilassante per gli occhi» parlò Gloria, dando una spiegazione a quella generale ventata di positività «E poi il timbro lo possiamo apporre dove vogliamo, anche in alto a destra, a sinistra, in basso al centro».
«Davvero?» domandai, sorpresa.
«Così ha detto il direttore. Penserà lui al resto».
Avrei voluto chiederle cosa fosse il resto, ma ero certa che non lo sapesse. Forse neanche il direttore sarebbe stato in grado di rispondermi, se mi fossi presentata al suo cospetto con una lista di dubbi ben stilata.
Scettica, ma desiderosa di abbracciare l’entusiasmo dei miei colleghi, sedetti alla scrivania e presi il primo blocco di fogli. Fidandomi di Gloria, apposi il timbro dove capitava. Trovavo un certo piacere nello spostare la mano un po’ più in su o più in giù, seguendo il ritmo, quasi una coreografia, che veniva più naturale al mio corpo. Bastò muovermi in maniera diversa dal solito per far sì che le mie spalle si abbassassero, che i muscoli perdessero la loro dolorosa tensione, e che l’aria continuasse a entrare e a uscire lenta dalle mie narici.
Timbrai i primi trenta fogli senza accusare alcun sintomo. Poi, col passare delle ore, il bianco della pagina iniziò a stordirmi. E immaginai – forse fu un sogno ad occhi aperti, uno stato di trance misteriosamente indotto – che quanto timbrassi fosse un’illeggibile sentenza di morte, moltiplicata per trenta, per quaranta. Un documento dopo l’altro, mi passarono davanti i destini di tutti gli uomini e le donne del quartiere, della città intera. Potevo ascoltare le grida, i singhiozzi isterici dei condannati. Le mie orecchie erano assordate dalle loro implorazioni, e la mia mente pulsava delle loro paure, come se il mondo vi fosse stato spinto dentro e, annullate tutte le sue leggi, aspettasse l’estinzione. Quando, fra le tante voci, riconobbi la mia, avevo appena messo in cima agli altri l’ultimo foglio della giornata.
Non ricordo con esattezza cosa accadde dopo. Sentii mancarmi il fiato. Il timbro mi scivolò dalle mani che tremavano, finendo a terra, e i documenti, lanciati in aria da uno scatto improvviso, mi sommersero. Smisi del tutto di respirare. La sentenza di morte toccava davvero anche me.
Credo sia stato l’omino dal naso aguzzo a salvarmi, ma neanche di quello ho memoria. So solo di essermi svegliata il giorno dopo in ospedale, stanca ma di nuovo lucida; di aver telefonato al direttore e di essermi licenziata.
«Niente ferie!» ho detto, con voce sicura.
«Le aveva già finite» mi ha risposto.
L’ho immaginato allora sorridere nella controluce.
Flavia Catena è una fotografa professionista nata in Sicilia e da diversi anni residente a Oxford, in Inghilterra. Ha conseguito una laurea in Editoria e Scrittura presso l’Università Sapienza di Roma e un Master in fotografia giornalistica. Oltre a raccontare attraverso le immagini che scatta, scrive storie, molte delle quali continua a tenere nascoste. Ha lavorato come traduttrice e collaborato con alcune riviste di critica letteraria, di viaggio e di fotografia. Alcuni suoi racconti sono comparsi su Lunario, Spaghetti Writers e antologie letterarie.