di Letizia Rigotto, Emma Mattiussi, Simone Cappellaro
Nella stazione dove lavoro ci sono solo due binari: uno che va di qua e uno che va di là. Quello che va di qua si allontana con una dolce curva verso destra, perdendosi dietro a una collina. Quello che va di là prosegue dritto lungo la pianura grigia, verso la città. Alle mie spalle, lo scrostato edificio giallastro della stazione fa la guardia al bar, ai bagni pubblici e alla biglietteria. In un angolo, appeso al muro, c’è il cartello che indica il nome della fermata, tutto bucherellato e mangiato dalla ruggine, in cui solo da vicino è possibile vedere il vecchio fondo blu azzurro.
In mezzo ai binari, dove tanto tempo prima era stata versata della grossa ghiaia per impedire alle erbacce di crescere, queste si alzano pressoché indisturbate, arrampicandosi sulle banchine. Su di esse, rare panchine con la vernice scrostata esibiscono le poche travi ancora inchiodate, che permettono alle persone di sedersi solo una per volta.
Dietro di me sento frusciare la porta in ciniglia del bar. Bassa e grassa, con una volgare tinta rossa e un’eternamente finita sigaretta fra le labbra, la proprietaria si appoggia allo stipite e tira un paio di boccate. Mi guarda, con gli occhi semichiusi, chiedendosi che cosa ci faccia ancora qui. Me lo domando anche io.
Ho accettato questo lavoro perché non c’era altro, e di trasferirmi in città non avevo né tempo, né voglia, né soldi. Per anni avevo sentito i miei amici, quelli che se n’erano andati, dire che qualcosa laggiù l’avrei sicuramente trovata, che non aveva senso rimanere. Io però ero rimasto, qualcuno doveva farlo, e quei miei amici non li avevo mai più sentiti.
Sono stato affidato all’infopoint della stazione, di quelli che sparpagliano un po’ ovunque, senza sapere dove siano più o meno utili. Il mio compito è dire alle persone se devono andare di qua o di là. Di qua non ci va quasi mai nessuno, solo qualche anziana signora in visita a dei lontani parenti, armata di una singola borsetta. Di là, invece, ci vanno quasi tutti, pieni di borse, borsoni e valigie, e quasi mai tornano. Chi va di qua ci va tranquillo, a volte aiutandosi a salire sul treno con un bastone da passeggio; chi va di là ha la fretta che troverà una volta arrivato, i genitori sbuffano a tenere in mano i bagagli e in braccio i figli, i figli frignano per quello che non ancora conoscono. E io li guardo andare, chi di qua e chi di là.
Oggi però, lo sento nell’aria, oggi però c’è qualcosa di diverso, lo sento quando giro la testa a destra e a sinistra, di là e di qua, lo sento nella punta delle dita quando indico la direzione a chi me la chiede. Oggi dal treno che arriva da là è sceso il cane di Paolo, l’amico che si è trasferito in città e che non ho mai più sentito. Con Paolo e il suo cane, quando vivevano ancora qui, facevamo grandi scorpacciate di gelato menta e cioccolato al bar della stazione e poi scappavamo a toglierci il sudore di dosso nella cantina di casa sua, piena di conserve e di prosciutti. Me lo ricordo perché era l’unico modo che conoscevo per passare le estati.
Il cane di Paolo si chiama Zecca perché in qualsiasi momento dell’anno gliene trovi sempre una addosso. Non siamo mai stati molto amici, io e Zecca, perché io gliele strappavo coi denti e lui si dimenava e guaiva e mi odiava. Eppure è Zecca, non Paolo, che è tornato da me.
Quando Zecca scende dal treno, penso sia un miraggio, di quelli che mi vengono intorno alle 15.45 quando ho girato la testa di là e di qua già troppe volte. La giro anche quando non passa alcun treno e non c’è nessuno a chiedere direzioni, ormai è un riflesso più forte di me, come a mostrare come faccio bene il mio lavoro, che servo a qualcosa qui, all’infopoint, che ho gli occhi da mosca e tutto sotto controllo. Intorno alle 15.45 di solito inizio a vedere puntini avvicinarsi lungo i binari ma non arrivare mai. Ora che mi si presenta davanti Zecca, proprio sotto al bancone dell’infopoint, il mio primo pensiero è che si tratta di uno di quei puntini immaginari che finalmente si rivela. Giro i miei occhi da mosca di qua e di là, e poi su Zecca, di qua e di là, e poi su Zecca. A parte lui, la banchina è vuota. L’infopoint è stato progettato appositamente per le grandi stazioni, come un’aiuola fiorita in mezzo a una rotonda per viaggiatori, ma qui c’è solo Zecca a zampettare in giro per l’atrio, stendendo la pancia di tanto in tanto sulle piastrelle fresche. Non si avvicina mai troppo, evidentemente non ha scordato i morsi delle estati passate; si limita a guardarmi attraverso la finestrella dell’infopoint, con la lingua porosa e secca a penzoloni.
Ad un tratto, dopo aver fatto l’ennesimo giro dell’atrio vuoto, Zecca si sposta verso la banchina, e i miei occhi da mosca lo seguono con un ronzio fotografico, fissando la sua nuca girarsi di qua e di là. Appena oltre la grande porta doppia, c’è una vecchia fontanella distratta, che perde gocce d’acqua con monotona costanza, tanto che sotto alla grata ferrosa c’è sempre una pozzangherina. Conosco molto bene quella fontanella dall’aria austera data dal grigio ferro battuto. Mi ci sono attaccato con avidità un sacco di volte, per placare l’arsura dei pomeriggi torridi passati con Paolo e Zecca. Conosco persino il suono che fanno le gocce quando cadendo tornano a essere indistinguibili: una volta fanno plick, un’altra fanno plack. E quando arrivano i treni che vanno di là, la vibrazione del vento ne fa cadere di più e più velocemente: plick plick plick plick plick plick! Ma quando giungono i treni diretti di qua non è la stessa cosa, e le gocce cantano plack plack plack plack plack plack. Zecca le intercetta una alla volta con la lingua, con scodinzolante impazienza. Io so che deve aspettare ancora molto prima del prossimo treno, allora abbandono il bancone e vado anche io sulla banchina. Apro il rubinetto e Zecca si bagna il muso e mi odia ancora una volta, ma beve a sazietà.
Restiamo seduti a guardare oltre i due binari. La campagna è un po’ gialla e un po’ verde, il cielo azzurro la accarezza con infinita dolcezza, come fa dall’alba dei tempi. Sento i miei occhi da mosca tornare a essere occhi da umano, perché non sanno più controllare minuziosamente il paesaggio, ma si lasciano confondere dall’intrufolarsi dei pensieri come quei puntini sui binari. Mi parlano di carezze date e ricevute, di ricordi estivi conservati nel frigorifero di un vecchio bar di una vecchia stazione. Allungo il braccio e passo il palmo della mano sulla schiena di Zecca e lui si lascia accarezzare, sancendo i termini della pace.
Plick plick plick plick plick plick!
La fontanella annuncia l’arrivo del treno diretto in città prima che lo faccia la voce ferroviaria registrata ufficiale. Zecca si alza, io lo imito. Il mio turno all’infopoint finisce proprio con l’arrivo di quel treno, quindi chiudo a chiave la mia squallida aiuola per viaggiatori. Zecca resta sulla banchina, dove nel frattempo il treno si è arrestato e nessuno scende o sale, poi Zecca balza in carrozza e si gira a guardare verso la stazione, a guardare me. Mi avvicino al treno e decido di salire, lasciandomi alle spalle il suono distante delle campane e della saracinesca del bar che piove giù sul pavimento come una cascata. Sto andando di là.
Il viaggio è breve e quando il treno si ferma in città mi affido all’orientamento di Zecca, che lesto si allontana dalla banchina ed entra nella grande stazione. Là sì che c’è tanta gente, tanti treni, tanti bar ancora aperti. Sembra un grande centro commerciale, o un supermercato con corsie piene di panchine e alberelli invasati, l’aria elettrica come i treni.
Zecca mi precede di qualche metro, poi punta deciso verso l’infopoint. É un’aiuola uguale alla mia, ma più rigogliosa e le persone ci camminano davvero intorno come se fosse una rotonda. Tanti si fermano davanti al bancone, dove ci sono vari sportelli per i viaggiatori sperduti. Zecca s’infila nel retro, costringendomi a guardare oltre il vetro del bancone. Riconosco subito Paolo. Sorride mentre indica la direzione alle persone, e ce ne sono tante in fila perchè, oltre ai binari che vanno di qua e di là, questa stazione ha anche treni diretti laggiù, qui vicino e anche verso città con nomi veri.
Resto qualche minuto a guardare Paolo da lontano, forse aspettando Zecca o sperando che i nostri sguardi si incrocino per più di un millesimo di secondo, come mi sembra sia successo mentre lui dice a un signore dove sia l’uscita. Non so che fare, e Zecca non sembra essersi dimenticato di me come il suo padrone, ma forse è normale una volta arrivati là. Mi dirigo verso la banchina e prendo il treno che torna di qua. Stavolta il viaggio è lungo. Quando compare la vecchia stazione nei finestrini del treno, sento i miei occhi da umano pieni di sonno e lacrime, ma non ho la forza di sfogarle, nemmeno una alla volta come fa la triste fontanella.
Scendo nella desolata vecchia cara stazione, che a quell’ora è casa di gatti e aeroporto di gufi e pipistrelli. Butto l’occhio al cellulare, per capire quante ore mi separano dal mio turno all’infopoint l’indomani e vedo una notifica inaspettata: chiamata persa da Paolo.
Mi giro di qua e di là a osservare se ci sia qualcuno, ma di qua vedo le luci del treno in lontananza, mentre di là ci sono i bagliori lucenti della luna riflessa sull’acciaio lucente dei binari lasciati scoperti dalle erbacce. Sono convinto che non siano binari morti.
Richiamo Paolo.
Collettivo Plick: giurano di non strappare con i denti le zecche a nessuno, specialmente non ai cani di Paolo. Nessuna Zecca è stata maltrattata nello scrivere questo racconto.