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Il western in Oppenheimer

di Luigi De Raho

    Su Wikipedia o IMDb Oppenheimer (2023), ultima fatica di Christopher Nolan, campione d’incassi in tutto il mondo e vincitore di sette premi Oscar tra cui miglior film e miglior regia, viene catalogato come film “biografico, drammatico, storico”. Si tratta di definizioni incontestabili ma che non consentono di coglierne fino in fondo la natura. Oppenheimer è, infatti, un western, genere tipicamente statunitense di cui possiede, seppur sottotraccia, tutti gli stilemi. In questa ricognizione, sarà utile fare riferimento a un grande western classico in bianco e nero del 1946, My Darling Clementine di John Ford, a partire dall’opposizione dicotomica tra il Wyatt Earp mitico di Henry Fonda e l’umorale Doc Holliday di Victor Mature.
    Alla stregua di Ford, il regista londinese usa la conoscenza della leggenda che preesiste nello spettatore (ovvero le conseguenze storiche della costruzione della bomba atomica) per valorizzare il mito che sta creando. In tal senso, i personaggi di Albert Einstein e di Robert J. Oppenheimer rimano chiaramente con i corrispettivi archetipi western.
    Il primo è un Übermensch
, calmo, sicuro di sé, conscio di star semplicemente svolgendo il proprio ruolo nella leggenda, ma è anche un isolato, come lo è Wyatt rispetto ai suoi fratelli (Morgan e Virgil vanno insieme a trovare James, Wyatt ci va da solo) e come lo è Einstein rispetto ai “fratelli” della nuova comunità scientifica. Wyatt/Albert, pur avendo interiorizzato il sistema di valori dell’Est, non dimentica la sua provenienza dalla tradizione dell’Ovest. Nelle ultime inquadrature di entrambi i film, vediamo Wyatt/Albert allontanarsi per una lunga strada che si perde a vista d’occhio, tendente all’infinito come la verticalità di una montagna che porta in alto, verso l’isolamento dalla comunità di qualunque società.

Tom Conti nei panni di Albert Einstein.
Henry Fonda nei panni di Wyatt Earp.

    Il secondo è un eroe da tragedia classica in cui convivono pulsioni estreme e contraddittorie: Doc Holliday è un medico ma è anche un “boss” del gioco d’azzardo, Oppenheimer è colui che ha solcato le frontiere più imperscrutabili della fisica ma è anche l’uomo che ha reso possibile la più micidiale arma di distruzione di massa della storia dell’umanità. Entrambi non trovano pace con se stessi e questo è reso evidente dal rapporto con le donne. Doc ha lasciato Clementine, dolce e rispettabile, perché nel suo cuore uno spazio speciale lo occupa Chihuahua, selvaggia e rozza. Chihuahua, come lo è Jean Tatlock per Oppenheimer, sembrerebbe rappresentare il lato immorale e degenerato del suo carattere, eppure l’afflato sincero di entrambi i rapporti non è mai messo in discussione. Quando scoprirà il suicidio di Jean, Oppenheimer, pur essendo di fatto un donnaiolo, ne sarà distrutto e a nulla basteranno le consolazioni di Kitty, la donna dell’Est, corrispettivo di Clementine. Ma, tanto in Oppenheimer quanto in Doc Holliday, le donne non sono né la causa né l’espressione dei tormenti interiori: ne sono semplicemente vittime. L’incapacità tragica di trovare un accordo con se stessi e con i vari aspetti della vita non è mai contestualizzata causalmente: Doc è attratto dalle parole dell’Amleto come Oppenheimer lo è dal verso 32 del Bhagavad Gita, antichissimo testo sacro della tradizione induista. Ambiguità e contraddittorietà caratterizzano tutto l’arco narrativo dei due personaggi, la cui inaccessibilità ne contribuisce al fascino: ogni volta che sono in scena, lo spettatore  si domanda su quali oscuri pensieri si stiano arrovellando.

Sopra: Jean Tatlock e Oppenheimer. Sotto: Chihuahua e Doc Holliday.

   L’approccio western con cui Nolan destruttura il biopic storico classico – innervandolo, peraltro, di umori provenienti dall’heist movie (il reclutamento della squadra) – è la chiave di volta con cui viene esaminata la Storia: un florilegio di pulsioni, obiettivi, interessi e posizioni inconciliabili di cui è impossibile fornire una ricostruzione obiettiva o attendibile. Tale irrappresentabilità del passato è testimoniata da un montaggio non lineare che prova a ricostruire le tante tessere impazzite di un puzzle caotico: non può non tornare alla mente il lavoro del montatore Pietro Scalia in JFK – Un caso ancora aperto (1991) di Oliver Stone. In JFK tale struttura narrativa era funzionale alla costruzione di un lungometraggio di finzione scopertamente complottistico che potesse ispirare nello spettatore un moto di verità storica sul caso Kennedy.
    In Oppenheimer la verità storica è a portata di mano ma a sfuggire sono le ragioni dei singoli individui che hanno contribuito a scriverla: il montaggio schizofrenico di Jennifer Lame, infatti, non esclude né decostruisce il mito ma prova (quasi nevroticamente per tutta la durata del film) a rileggerlo sotto angolazioni diverse.  La risposta finale resta allo spettatore, sempre più convinto che la natura umana, come la fisica quantistica, sia destinata a rimanere un mistero insondabile.

 

Luigi De Raho
Detesto il postmoderno ma non lo do troppo a vedere.

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