di Lorenzo Curti
Nella filmografia di Miyazaki Hayao la dimensione dell’infanzia è presente in almeno tre aspetti. A parte rare eccezioni, le storie del regista sono racconti di formazione incentrati su protagonisti bambini o adolescenti. In secondo luogo ogni suo film è pensato per gli spettatori più piccoli,¹ pubblico che Miyazaki ha sempre dichiarato di privilegiare. Infine nell’elaborazione dei soggetti si trovano quasi sempre spunti presi direttamente o indirettamente da libri rivolti ai ragazzi.² È così spiegato il motivo per cui il cinema dell’autore giapponese possieda tratti in comune con i migliori esempi di narrativa per l’infanzia. Tra questi elementi spicca la volontà di disinteressarsi dell’effetto prodotto sui bambini dagli argomenti affrontati in favore della sincerità. È così possibile smentire l’opinione diffusa di una produzione artistica indirizzata ai giovani tanto più valida quanto più edulcorata e utile sul piano educativo. Morte, depressione e solitudine colpiscono gli spettatori occidentali, disabituati a vedere trattati temi simili in modo così libero attraverso l’animazione, solitamente liquidata come tecnica espressiva di scarsa rilevanza rispetto a quella tradizionale.
¹ Stando a un calcolo delle parole presenti nei copioni e della loro frequenza di utilizzo, tutti i dialoghi dei film di Miyazaki possono essere capiti perfettamente da bambini giapponesi di età compresa fra i tre e i dodici anni (Il mio vicino Totoro è il più semplice, Si alza il vento il più difficile).
² Miyazaki è stato un estimatore fin da giovane della letteratura per l’infanzia, di cui ha letto i più importanti classici spesso citati nei suoi film.
Si possono poi rintracciare almeno due ulteriori punti di contatto tra il cinema miyazakiano e la letteratura per l’infanzia: il primo è il paradosso che vede un autore adulto impegnato nel tentativo di descrivere un protagonista bambino, riuscendo però soltanto a esprimere una proiezione di quell’età; il secondo, strettamente connesso al precedente, è il riconoscimento dell’infanzia quale dimensione tanto inaccessibile e complessa da richiedere l’utilizzo del linguaggio poetico dell’arte – letteraria, cinematografica – per cercare di esprimerne il mistero. Fin dagli esordi Miyazaki è entrato in contatto con testi occidentali per ragazzi che hanno definito in parte il suo stile e i suoi contenuti. Romanzi come Heidi, Anna dai capelli rossi, Pippi Calzelunghe³ provano quanto la letteratura per l’infanzia si basi in sostanza sul tentativo di immedesimazione in un’alterità agli antipodi della mentalità adulta, tentativo che richiede peraltro lo sforzo di trovare il linguaggio corretto per parlare a un bambino, percepito a netta distanza.
Per colmare questo divario gli autori sensibili non si limitano a considerare i piccoli lettori in qualità di semplici destinatari dei libri, ma anzi cercano di ascoltarli e di prestare loro attenzione, osservandone la maniera di interpretare, immaginare e sentire il mondo circostante. Il bambino assume perciò un ruolo attivo nel processo compositivo dell’opera a lui dedicata, ponendosi in un rapporto di parità con l’adulto fino all’eventualità eccezionale di diventare co-autore dell’opera stessa.⁴ Non a caso uno dei tanti motivi che nel 1992 spinsero Miyazaki a scegliere il sobborgo di Koganei come nuova sede dello Studio Ghibli fu la presenza di aree verdi e scuole nelle vicinanze: a detta del regista, la possibilità di mantenere un contatto diretto con la natura e l’infanzia ha avuto un impatto stimolante sulla sua creatività.
³ Sotto la guida di Takahata Isao, Miyazaki lavorò alla serie animata di Heidi (1974) e poi ai primi episodi di Anna dai capelli rossi (1979); nel 1971 il progetto di Pippi Calzelunghe invece non si concretizzò perché l’autrice Astrid Lindgren non concesse i diritti per l’adattamento televisivo.
⁴ Il caso esemplare è Alice nel Paese delle Meraviglie (1865), nato dall’assidua frequentazione di Lewis Carroll con Alice Liddell.
Veniamo dunque al capolavoro della filmografia miyazakiana, contraddistinto da una serie di peculiarità che lo rendono un ottimo riassunto del discorso fatto sin qui. Kiki – Consegne a domicilio⁵ ha rappresentato uno spartiacque nella carriera del suo autore per diverse ragioni. Dal punto di vista produttivo, il budget di Kiki risultò tra i più alti di un prodotto animato dell’epoca e, grazie all’imponente campagna pubblicitaria, l’opera diventò campione d’incassi del 1989, favorendo l’espansione della fama di Miyazaki al di fuori della ristretta cerchia di appassionati. Con il ricavato fu inoltre possibile risanare la situazione economica del Ghibli, fino a quel momento precaria, per dare inizio a una nuova stagione di progetti attraverso l’assunzione di animatori regolarmente stipendiati. Sul versante artistico il film rappresenta l’inizio di quello stile di animazione che negli anni è stato definito – con più o meno consenso da parte della critica – “estetica Ghibli”.
Kiki – Consegne a domicilio è però anche il primo film dove Miyazaki si trova a scrivere una sceneggiatura totalmente non originale: il soggetto e i personaggi sono infatti tratti dall’omonimo romanzo per ragazzi di Kadono Eiko,⁶ pubblicato nel 1985. La scrittrice prese lo spunto per il libro da un disegno della figlia Rio, che ritraeva una strega e il suo gatto nero a cavallo della scopa con una piccola radio appesa al manico. L’immagine piacque talmente tanto all’autrice da convincerla a elaborarvi attorno la trama, tratteggiando poi l’umore della protagonista a partire dall’osservazione del carattere della figlia di dodici anni. Se può essere improprio parlare di co-autorialità, è invece indubbio che l’influsso indiretto della bambina abbia giocato un ruolo fondamentale per la riuscita del personaggio della streghetta, diventata iconica – prima sulla pagina scritta, poi su grande schermo – anche grazie alla buffa radiolina che Miyazaki utilizza per introdurre diegeticamente il brano Messaggio con il rossetto⁷ nella splendida sequenza dei titoli di testa.
Una situazione simile si verificò durante le difficili fasi di produzione del film, dopo la decisione del cineasta di curare oltre alla sceneggiatura anche la regia.⁸ Per la prima volta Miyazaki dovette affrontare un racconto di formazione incentrato su una ragazzina, descritta nella delicata fase di crescita, alla ricerca di un posto nel mondo. Per farlo al meglio ricorse dunque a tre ispirazioni principali: le giovani animatrici impiegate al Ghibli, le serie tv di Takahata a cui aveva lavorato (ci sono evidenti tracce di Heidi e Anna dai capelli rossi) e i racconti del produttore Suzuki Toshio sulla figlia, all’epoca tredicenne proprio come la piccola strega.⁹
⁵ Majo no takkyūbin in originale, lett. “Le consegne espresse della strega”.
⁶ Autrice di quasi duecento opere tra libri per ragazzi e saggi, vincitrice nel 2018 del Premio Hans Christian Andersen, definito il Nobel della letteratura per l’infanzia.
⁷ Rouge no dengon, singolo del 1975 della cantautrice Matsutoya Yumi, il cui testo è un incoraggiamento all’emancipazione femminile.
⁸ Inizialmente Miyazaki, impegnato nella produzione di Il mio vicino Totoro (1988), aveva affidato la direzione del film all’allora apprendista Katabuchi Sunao.
⁹ Suzuki T., I geni dello Studio Ghibli, Dynit Manga, 2023, p.71.
A ciò bisogna aggiungere la grande abilità interpretativa di Miyazaki, il quale modificò parti del libro, aggiunse ed eliminò sequenze (senza snaturare i punti chiave della narrazione), e rimodellò i personaggi sulle proprie esigenze, riuscendo ad accordare il significato del testo alla poetica personale. La sinergia tra contenuto del romanzo, contributo dei bambini ed estro creativo del regista portò alla nascita della protagonista più atipica tra le eroine miyazakiane, ma anche la più efficace nel rappresentare la complessità dell’infanzia che sfuma nell’adolescenza. Kiki – Consegne a domicilio mostra la sua unicità sin dalla prima sequenza, geniale rielaborazione dell’incipit letterario: adagiata su un prato immerso nella quiete, interrotta dal fruscio del vento sull’erba e dal rumore della radio, Kiki osserva assorta le nuvole in cielo. Attraverso il silenzio, Miyazaki fa percepire allo spettatore la presenza di un universo emotivo stratificato e ricco di contraddizioni, nascoste al di sotto dello sguardo indecifrabile di Kiki, colta nella tipica espressione dei bambini tra il pensieroso e l’annoiato. In una delle rare interviste incentrate sul lungometraggio, il regista afferma: «Il tratto distintivo di questo film è l’espressione dei tanti volti di una persona. […] Queste facce non sono calcolate ma vengono fuori in modo naturale o come risultato di ciò che lei [Kiki ndr] ha imparato dai genitori. Il mio pensiero è che una delle caratteristiche dell’adolescenza sia imparare a capire l’uso appropriato di queste espressioni facciali».¹⁰
¹⁰ Miyazaki H., Starting Point 1979-1996, trad. B. Cary e F. L. Schodt, San Francisco, VIZ Media, 2014, p. 378.
Nel corso del film sono molte le scene di instabilità emotiva della protagonista che passano attraverso il volto, perché prive dei dialoghi o della colonna sonora, una scelta stilistica con cui Miyazaki mantiene le distanze, astenendosi dal giudicare le reazioni di Kiki per limitarsi invece a osservarle. L’atteggiamento umorale, in bilico tra euforia e malinconia, si accorda perfettamente con il personaggio sospeso sia tra cielo e terra, mentre vola con la scopa, sia tra mondo infantile e mondo adulto, quando alcune circostanze le impongono di abbandonare progressivamente certi atteggiamenti da bambina per accogliere le responsabilità del lavoro. La formazione di Kiki è infatti scandita da una serie di separazioni dalle sicurezze dell’ambiente familiare protetto da cui proviene: la radio presa dal padre viene abbandonata perché trasmette programmi in inglese, la scopa regalata dalla madre si rompe, il gatto Jiji – suo alter ego – smette di parlarle quando non ne ha più bisogno. Oltre a una precisa visione pedagogica che interpreta la crescita come una successione di traumi formativi, in questi e altri snodi si percepisce il tipico atteggiamento ambiguo di Miyazaki nei confronti della crescita. Essa si presenta sia come ottenimento dell’indipendenza desiderata, sia come perdita della bellezza irripetibile del tempo dell’infanzia, già rappresentata in Il mio vicino Totoro (1988) nel differente rapporto delle sorelle Satsuki e Mei con l’elemento fantastico.
Come in ogni romanzo di formazione anche in Kiki – Consegne a domicilio è presente un confronto con le figure adulte, non interpretate però in un’ottica di conflitto ma in qualità di supporti emotivi. A personaggi maschili quasi assenti si affiancano personaggi femminili forti che fungono da specchio di diverse condizioni ed età di una donna – la giovane ragazza indipendente, la lavoratrice incinta, l’anziana vedova – allo scopo di aiutare Kiki a comprendere meglio se stessa e imparare a rapportarsi con gli altri. Dice Miyazaki: «La cosa più importante per Kiki non è il successo della sua attività […] ma il modo in cui può conoscere molte persone diverse. Mentre cavalca la scopa accompagnata dal suo gatto e vola nel cielo, è libera. Questo accade perché si trova lontana dalle persone. Ma vivere in una città, in altre parole, fare pratica per una professione, le richiede di confrontarsi con se stessa in modo onesto».¹¹
Ed è proprio l’onestà dello sguardo adulto di Miyazaki nei confronti del pubblico di bambini il tratto peculiare di un film profondo come Kiki e della carriera ormai sessantennale del suo autore, che ha segnato e continua a segnare profondamente la storia del cinema.
¹¹Miyazaki H., op. cit. p. 382.
Lorenzo Curti legge tanto, scrive poco e cerca di tenere in vita il cervello.