di Giovanni Casarin
a G.V.
Si scopre nel punto morto. L’unica via di fuga, lo sa bene, è imboccare la tangente che apre il cerchio alle porte scorrevoli. Cancellare la visione periferica, gli occhi incollati ai piedi che puntano l’uscita. Basta un’insegna intercettata da una saccade ed ecco che si ricade nel punto morto e allora si è costretti a girare nell’anello luminoso come una vespa rincretinita e incattivita dal puzzo di bistecca.
La rampa di scale mobili che scende al parcheggio interrato è lì davanti. Cinque passi e lui è già sopra la piattaforma di metallo, ma non si muove. Un guasto? La percorre di corsa, scatta dritto e il suo corpo rimbalza contro il vetro.
Si riavvicina piano, scuote la mano davanti alla fotocellula, ma non accade nulla. Accosta allora il volto, facendosi ombra: ecco la berlina, sola al centro del parcheggio vuoto. Tornare di sopra e tentare un’altra uscita.
Il lungo corridoio che curva e si perde all’orizzonte è illuminato. Le saracinesche dei negozi sono abbassate, le luci interne spente. Dove sono andati tutti? Che ore sono? Possibile che io sia svenuto o sia cascato dal sonno, ignorato da tutte quelle donne e quegli uomini galvanizzati con le loro borse straripanti di scatole e carta velina mentre si avvicinava l’orario di chiusura? Eppure, mi era parso di essere arrivato qui da poco, di aver girato un po’ per scoprire presto di essere nel punto morto. Forse sognavo, disteso sul pavimento o su una di quelle panchine imbottite.
Estrae il cellulare dalla tasca per chiamare qualcuno, ma lo trova scarico. Torna giù, spera in un pulsante di emergenza sulla porta automatica. C’è e lo preme. Immagina che sia partito il segnale e che presto arriverà qualcuno a liberarlo. Per ora non gli resta che ingannare il tempo esplorando quegli spazi deserti. Dare un’occhiata alle vetrine, finalmente una buona scusa per non essere obbligato a entrare e comprare.
Armani, Apple, Nike. Cammina per un po’ a testa bassa e intercetta un’ombra che gli fa alzare lo sguardo. Sopra di lui il collo sinuoso di un enorme brachiosauro di plastica, installato in mezzo al corridoio. Il muso bloccato a fauci aperte, protese verso le lampade del soffitto e un buco sotto la coda, scherzo di qualche ragazzino.
Passa sotto il suo ventre per raggiungere una gioielleria. Quando distoglie lo sguardo dalla vetrina, la fine del corridoio pare ancora più distante. Si volta e il brachiosauro non c’è più. Che me lo sia sognato?
Scale mobili incastonate tra due negozi lo portano nel mezzo di una piazzola costellata di tavoli. Allora crolla su una sedia esausto, le gambe dolenti come se avessero camminato per diversi giorni.
Gli si chiudono le palpebre, ha sonno. Arrovescia la testa sullo schienale.
Il guardiano notturno non arriva mai. Lui invece è lì da sempre e vaga un po’ di qua e un po’ di là. Percorre un corridoio, sale e scende dai piani, ma finisce sempre per ritrovarsi in quella piazzola coronata di fast food.
C’è un bagno lì vicino e ci passa intere giornate. Tenta di misurare lo scorrere del tempo con uno specchio, ma il suo corpo non cambia. Allora, quando è stanco di vederlo, raccoglie del sapone dal dispenser e se lo passa addosso con le mani, fin sui capelli. Poi lo sciacqua via. Aspetta di essere asciutto, si riveste e torna a rannicchiarsi sopra un tavolo. Si addormenta così, tremando un po’.
Ed è dormendo che passa la maggior parte del tempo. In angoli dove trova qualche cono d’ombra, sulle panche, insomma un po’ ovunque.
Piccoli squali di plastica disposti in fila sul bordo di una piscina sono la cosa che vede quando chiude gli occhi. E altri vecchi giocattoli.
È proprio quando si sveglia che la trova. Apre gli occhi e sa subito che qualcuno, da qualche angolo di quella piazza, nascosto dietro una colonna o tra le isole dell’immondizia sta guardando dritto verso di lui. Coglie un riverbero in quella luce sempre uguale, segno che c’è un nuovo corpo che si muove lì, oltre al suo. Si solleva e la prima cosa che pensa di fare è passarsi le mani sui capelli, che devono essersi schiacciati durante il sonno. Poi rimane seduto sopra il tavolo, in attesa.
È dietro di me. Sì, proprio così.
Si volta, ma non vede nessuno. È quando si volta di nuovo che la trova, a pochi passi da lui.
Ciao. Chi sei? Come sei arrivata qui?
Lei si ritrae e va a sedersi un po’ in là. Tiene lo sguardo fisso su di lui. È bellissima e non parla.
Passa un’altra eternità e loro sono vicini, in silenzio. Camminano insieme per i corridoi, si fermano per un po’ davanti a una vetrina. Lei indica un maglione rosso che emerge dal buio, lui annuisce. Talvolta si tengono per mano.
Poi uno dei due si allontana, prende una rampa di scale salutando l’altro con la mano. Vagano per un po’ soli, ma alla fine si ritrovano sempre nella solita piazzola, stanchi morti.
A quel punto si coricano uno accanto all’altro, le loro teste scivolano e si avvicinano sempre di più. Quando si toccano possono finalmente chiudere gli occhi e vedere tutto quello che l’altro ha visto quando erano lontani.
Il brachiosauro lo incontrano dopo aver frugato a lungo con lo sguardo la vetrina della gioielleria. Quello sarà tuo. Quando riapriranno i negozi e torneranno le altre persone. Questo le ha detto con il dito indicando un diadema. Lei ha sorriso.
Poi un’ombra ha coperto tutto quello sfavillare di pietre e lei ha ruotato il capo. Ed ecco il brachiosauro pietrificato dietro di loro. Quando anche lui si è voltato, lei non c’era più.
La ritrova seduta in un angolo del bagno. Il corpo è raccolto a uovo, la testa nascosta sotto le braccia trema. Lui si avvicina e sente dei deboli sussulti. Si siede accanto a lei, poggia la testa sulla sua spalla come per dire non avere paura, ci sono io a proteggerti dai brachiosauri. E così dormono a lungo.
Poi si alzano e portano i loro corpi davanti allo specchio che copre tutta la parete. Lavano via i sogni con l’acqua gelida che esce dai rubinetti. Rimangono lì per un po’ a guardarsi nello specchio.
Quindi si voltano e le labbra si sfiorano piano. Esplorano le loro bocche e presto si ritrovano nudi. Quando si staccano dall’abbraccio gli occhi socchiusi di lei sembrano non vedere niente. È tutta rossa e stupita come una bambina. È bellissima e non parla.
Allora lui raccoglie del sapone dal dispenser e le insapona tutto il corpo, fin sui capelli. Lei fa lo stesso con lui. Poi si amano sulle piastrelle bianche del bagno.
Ora possiamo parlare.
Sì ora possiamo.
Forse potremmo anche uscire da qui.
Sì, forse potremmo. Andremo di sotto, troveremo le porte automatiche aperte. Saliremo entrambi sull’auto e ci ameremo fuori, al sole. Guideremo e viaggeremo lontani nell’autostrada illuminata finché non saremo stanchi e verrà buio. Ci fermeremo in un ostello e ci ameremo anche lì, nella notte. E poi un giorno torneremo e io comprerò per te quel diadema e tutte quelle altre cose che ho visto qui dentro.
Sì!
Si prendono per mano e vanno. Scendono la scala, camminano piano lungo il corridoio che sembra non finire mai. Poi più forte, corrono. Sono impazienti, ci sono quasi.
Si nota un lucore intermittente oltre le vetrine dei negozi, un brusio come di neon che si scaldano. Questo spaventa entrambi. Dobbiamo andare più veloci.
L’ultima rampa è ormai vicina, si vedono già i gradini dentellati che scorrono e si immergono nel piano di sotto.
Vai prima tu!
No, andiamo insieme!
No, uno per volta. Aspettami lì, ti raggiungo!
Attorno a loro le luci sfarfallano a intensità sempre maggiore, pare che tutto stia per mettersi a bruciare. Lui obbedisce, zompa sui gradini, ma prima di uscire si volta: lei da sopra gli sorride.
Le porte si aprono al suo passaggio e raggiunge l’auto, che per tutto il tempo è rimasta lì ad aspettarlo.
Mette in moto, attende al posto del guidatore tamburellando con le dita sul volante. Una tubatura sul soffitto perde, le gocce cadono a ritmo sul vetro. Aziona i tergicristalli, tutto il resto attorno è immobile. Allora torna indietro.
Si avvicina, fa per entrare: non si apre più. Guarda dentro, ma non si vede niente, è tutto buio.
Un pugno forte contro il vetro, che rimane intatto, ma gli fa sanguinare la mano.
Più tardi guida l’auto lungo la rampa a spirale: fuori è notte, la strada è deserta. Capisce. Accosta in parte, abbassa il finestrino e accende una sigaretta. Alla terza uscita della rotonda il rettilineo che porta al casello autostradale.
E ora non gli resta che partire, seguire la Via Lattea dei lampioni. Setacciare parcheggi di stazioni di servizio, parcheggi interrati e sopraelevati, parcheggi di fabbriche in ogni angolo di mondo.
Magari, un giorno, nella selva mesozoica e affollata di un parco a tema, far uscire un sussurro tra i denti anestetizzati da una bibita ghiacciata: guarda lì, ricordi come ti faceva paura?
Giovanni Casarin
Mi chiamo Giovanni, ho 21 anni. Studio Medicina all’Università di Udine. Voglio diventare un detective, più che uno psichiatra, che tenta di indagare l’origine dell’orrore che si presenta nelle nostre vite da un giorno all’altro, senza preavviso. La scrittura non so bene cosa sia, ma mi permette ogni tanto di vivere.