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Spesso ho pensato di essere uno zombi: dal vudù a Jim Jarmusch

di Emma Mattiussi

Night of the Living Dead, dir. George Romero (USA, 1968).

    I morti non muoiono e nemmeno i film sugli zombi. Dalle primissime attestazioni ottocentesche del termine zombi a oggi, l’epidemia dei morti viventi – capace di contagiare le più diverse arti, dalle forme più popolari a quelle più di ricerca – è quasi giunta al suo compimento, in un’industria culturale che è ormai satura di zombi. Eppure, nel corso della sua storia, lo zombi ha sempre permesso letture che vanno al di là di se stesso e forse oggi non ha ancora esaurito le cose da dire.
    Nata come tradizione indigena haitiana e forse prima ancora dalla tradizione vudù congolese, con George Romero gli zombi hanno invaso lo spazio cinematografico raggiungendo una popolarità e commercializzazione assoluta negli anni duemila. Ad oggi, esistono addirittura gli zombi-studies, anche in ambito accademico, e nel 2019 il Festival di Cannes è stato aperto da uno zombi-movie d’autore, The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch. Tentando di tracciare questa evoluzione nel tempo – dallo zombi haitiano a quello cinematografico – l’articolo approderà a Jarmush e a come The Dead Don’t Die sia forse l’unico modo in cui si può ancora far parlare gli zombi oggi.

    Dallo zombi carribeanus allo zombi cinematicus
    Non è così semplice definire i morti viventi. É convincente la categorizzazione di Sarah Juliet Lauro che distingue in una prima fase lo zombi caribbeanus seguito poi dallo zombi cinematicus.¹ Il primo proviene dalle Antille, da Haiti e più lontanamente forse dall’Africa.² Come tutte le storie più interessanti, le prime attestazioni di zombi provengono dai margini dei grandi imperi coloniali. Non si tratta di storie esclusivamente fantastiche:³ si parla dei primi zombi come degli schiavi messi a lavorare nelle piantagioni i cui padroni hanno tolto la volontà, così come lo sono le schiave sessuali – nere e bianche – che vivono e obbediscono al padrone. Questa prima forma di zombi presuppone la presenza di un capo zombi, il bokor, che li avveleni e li governi.
    Lo zombi cinematicus, invece, debutta nel 1968 con Night of the Living Dead di George Romero. La produzione enorme di Romero ha dato luogo a tre rivoluzioni nella figura dello zombi: l’incrocio tra lo zombi e il vampiro, ispirato a I Am Legend (1954) di Richard Matheson, e che dà luogo al moderno zombi-ghoul; il contesto geografico, che da Haiti si sposta agli Stati Uniti, rendendo i morti viventi non più figure esotiche, ma calate nel quotidiano; infine, la massificazione dello zombi, che non riguarda più casi singoli ma orde. Inoltre, per un errore di distrazione – la mancanza di copyright nei crediti finali di Night of the Living Dead – Romero non ha mai detenuto i diritti sullo zombi-ghoul, da cui la proliferazione infinita non solo di zombi-movies, ma anche di contagio zombi in letteratura, nei videogiochi e in generale nell’immaginario contemporaneo.
    Con Romero, gli zombi entrano in un’epoca ateologica e popolare, sfuggono a una volontà centrale, a un capo-zombi. La mutazione che Romero impone ai morti viventi riflette la trasformazione del mondo e del capitalismo: lo zombi moderno è un consumatore (di carne umana), non un lavoratore delle piantagioni di Haiti. Il passaggio tra i due tipi di zombi, da quello haitiano a quello cinematografico, corrisponde quindi a una mutazione storica ed economica: dal capitalismo basato sul lavoro al capitalismo basato sul consumo. Lo zombi si trasforma così da metafora della servitù a metafora del consumo.
   
Secondo Kyle William Bishop, alla fase della critica sociale è seguita una fase di parodia:

    Negli anni ’80, il mostro ha subito un declino di popolarità mentre il genere scivolava nella fase della parodia. L’inizio della fine si ebbe nel 1983: nel video musicale di Thriller, Michael Jackson ballava con cadaveri estratti dalle tombe. Non è affatto un’allegoria, lo zombi di Jackson è kitsch, superficiale e tutt’altro che spaventoso. […] Invece di avere qualcosa di rilevante da dire sulla società, lo zombi cinematografico è stato relegato a mero intrattenimento, e pochi teorici hanno trovato un motivo per esaminare seriamente l’argomento.

¹ Lauro, Sarah Juliet, The Transatlantic Zombie. Slavery, Rebellion, and Living Death, Rutgers University Press, 2015, New Brunswick, New Jersey, and London. 
²
La credenza negli zombi affonda le sue radici nelle tradizioni portate ad Haiti dagli africani schiavizzati e nelle loro successive esperienze nel Nuovo Mondo. Si pensava che la divinità vudù Baron Samedi li avrebbe raccolti dalla tomba per portarli in un aldilà paradisiaco in Africa, a meno che non lo avessero offeso in qualche modo, nel qual caso sarebbero rimasti per sempre schiavi dopo la morte, come zombi.
³ Wade Davis, un etnobotanico di Harvard, ha presentato un caso farmacologico per gli zombi in un articolo del 1983 sul Journal of Ethnopharmacology, e successivamente in due libri popolari: The Serpent and the Rainbow (1985) e Passage of Darkness: The Ethnobiology of the Haitian Zombie (1988). Davis si recò ad Haiti nel 1982 e, a seguito delle sue indagini, affermò che una persona viva può essere trasformata in uno zombi da due polveri speciali introdotte nel flusso sanguigno. La prima contiene tetrodotossina (TTX), una neurotossina potente e spesso mortale che si trova nella carne del pesce palla. La seconda polvere è costituita da droghe deliranti come la datura. L’insieme di queste polveri avrebbe indotto uno stato simile alla morte, in cui la volontà della vittima sarebbe stata interamente assoggettata a quella del bokor. Davis ha anche reso popolare la storia di Clairvius Narcisse, che avrebbe ceduto a questa pratica.
⁴ Romero inizialmente non aveva pensato di definire i suoi mostri “zombi”, è la critica – soprattutto con i Cahiers de Cinéma – ad affidare loro questo nome, di cui poi Romero si appropria. Vedi JLSVT – George Romero su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=o0CFFRkLqrg&t=11m15s.
⁵ Bishop, Kyle William, « L’émergence des Zombie Studies : comment les morts-vivants ont envahi le monde universitaire et pourquoi nous devrions nous en soucier », Z pour Zombies, cit, p. 37.  Traduzione mia.

Night of the Living Dead, dir. George Romero (USA, 1968).

    The Dead Don’t Die: il meta-zombi
    The Dead Don’t Die appartiene – almeno in apparenza –  a quest’ultima categoria, quella della parodia. Perciò, oltre che essere citazionistico a livelli estremi, è metacinematografico: i protagonisti, interpretati da Adam Driver e Bill Murray, sono consapevoli di essere in un film e ripetono spesso di aver letto la sceneggiatura di “Jim”. Tra gli elementi appartenenti al genere, Jarmusch inserisce – apertamente e quasi scontatamente – anche una critica al consumismo e al cambiamento climatico. Ma a un’analisi più approfondita, emerge la vera natura del film: una messa in scena della zombificazione dell’emotività contemporanea.
    Nella cittadina americana di Centerville, gli agenti della polizia locale Cliff Robertson e Ronnie Peterson si accorgono che qualcosa non va: gli animali scompaiono, la notte non cala mai, gli orologi e i telefoni smettono di funzionare. La televisione riferisce dell’inquietante fenomeno della fratturazione polare, che ha alterato l’asse di rotazione della Terra. Dopo la consueta invasione zombi, che vede coinvolti vari abitanti della città, il film si chiude al cimitero, dove Ronnie e Cliff, che conoscono la sceneggiatura del film, sanno di dover combattere gli zombi fino alla morte, e così fanno.

The Dead don't Die, dir. Jim Jarmusch (USA, 2019).

    L’intervento di Jarmusch nel metacinema sembra essere l’unico modo, secondo lui, di fare film di genere oggi. Scrive il critico cinematografico John Semley: 

[Jarmusch] sa che il postmodernismo non è un approccio o un quadro di riferimento, ma una condizione condivisa di esperienza vissuta. E per di più, lo capisce in modo così fondamentale che […] ne è del tutto annoiato. Il film non prende solo in prestito dal mythos dei film di morti viventi, ma si sviluppa su un cumulo di rottami cinematografici, dove ogni cosa è un riferimento a qualcos’altro. Non si tratta di essere “meta”. Si tratta di non avere altro che il “meta”.

    Anche nella scena conclusiva, quando il personaggio di Hermit Bob pronuncia il suo discorso fuori campo sul capitalismo, riassumendo temi già abbastanza ovvi per lo spettatore, è possibile chiedersi se Jarmusch non stia ancora citando la mancanza di sottigliezza degli zombi-movies che lo hanno preceduto. La critica socio-economica è quindi forse solo un ulteriore elemento della parodia del genere.
    Se invece si considerasse – con Jarmusch – il sistema capitalistico come responsabile dell’annientamento della volontà individuale, se l’iperstimolazione di una scelta infinita causasse una sorta di torpore, di intorpidimento, di zombificazione dell’essere umano, allora è possibile leggere in The Dead Don’t Die una critica delle conseguenze di questa zombificazione sulle nostre vite. È un’accusa molto più forte di quella contro il capitalismo in sé, perché è un’accusa contenuta nella struttura stessa del film e nei suoi protagonisti: i veri zombi di Jarmush non sono i morti viventi, ma gli annoiatissimi personaggi vivi. Il torpore emotivo degli agenti di polizia, la loro incapacità di provare terrore di fronte all’apocalisse, li presenta come le vere vittime della zombificazione, mostri incapaci di empatia o di qualsiasi tipo di emozione. Sono insensibili alla violenza e non hanno reazioni normali alle situazioni tragiche. Naturalmente, poiché conoscono già la sceneggiatura. L’impotenza degli agenti di polizia risiede anche nel fatto che sono semplici marionette nel copione di Jarmush: non hanno alcun controllo su ciò che accade dopo.
    Gli unici a sopravvivere all’epidemia sono Zelda Winston (Tilda Swinton), probabilmente un’aliena, i bambini del centro di detenzione, che vediamo fuggire, e Hermit Bob (Tom Waits) che ha scelto – esercitando la volontà che il capitalismo reprime – di vivere fuori dai meccanismi della società contemporanea e quindi simbolicamente fuori da Centerville, nella foresta. Jarmusch suggerisce forse che bisogna stare ai margini della società per salvarsi dall’epidemia capitalista.
    L’attenzione può quindi essere reindirizzata a chi guarda The Dead Don’t Die conoscendo già le sceneggiature standard e i tropi tipici di un film di zombi. Anche chi guarda è insensibile alla violenza, avendo consumato fin dall’infanzia immagini di finta crudeltà, andando al cinema per intrattenimento, senza sperimentare sul proprio corpo il male rappresentato sullo schermo. Forse Jarmusch, presentando un film sull’apocalisse zombi con toni stranamente pacati, vuole dimostrare nella sua meta-struttura narrativa che il vero pericolo del capitalismo è l’assuefazione di cui siamo vittime. La critica di Jarmusch, attraverso gli strati della commedia e del metacinema, è quindi rivolta al modo in cui il capitalismo ha inibito la vita e la capacità di provare emozioni.

⁶ Semley, John, «Jim Jarmusch’s The Dead Don’t Die is a welcome return of the living deadpan», The Globe and Mail, 13 giugno 2019. Disponibile online: https://www.theglobeandmail.com/arts/film/reviews/article-jim-jarmuschs-the-dead-dont-die-is-a-welcome-return-of-the-living/.
⁷ Il centro di detenzione giovanile si chiama CDC, come il Center for Disease Control and Prevention americano che nel 2021, per usare l’immaginario zombi come esempio per rispondere a un disastro, pubblica un articolo di blog dal titolo “Preparedness 101: Zombie Apocalypse”. Il centro americano ha poi dovuto negare formalmente l’esistenza degli zombi. Jim Jarmusch non ha ovviamente perso l’occasione per strizzare l’occhio al legame tra il CDC e gli zombi.

    L’unico personaggio che rimane umano e si spaventa di fronte agli zombi è Mindy (Chloë Sevigny), che alla fine si lascia morire per raggiungere la nonna, un atto che dimostra terrore e affetto, due emozioni che gli altri poliziotti non provano mai. Il film si contraddistingue per una tranquilla armonia anche nella sua estetica da fine del mondo, con scene di una strana bellezza, soprattutto quando i personaggi girano in auto tra gli zombi. Ma le lamentele di Mindy interrompono questa armonia fino a infastidire chi guarda, costrettə a confrontarsi con la realtà di una reazione plausibile. Non fa parte della sceneggiatura di Jim? Sicuramente no, ovvero: Mindy è un essere ancora vivo, che ha la capacità di provare emozioni e che non è stato intaccato nel profondo dalle inibizioni causate dal sistema.
    Forse Jarmusch ci aveva avvertito fin dall’inizio che questo è il vero tema del film, l’unico tema che prende sul serio e che non rende del tutto esplicito. The Dead Don’t Die di Sturgill Simpson, la theme song – la canzone che rivela il tema – è infatti citata e suonata innumerevoli volte nel corso del film:

Oh the dead don’t die
Any more than you or I
They’re just ghosts inside a dream
Of a life that we don’t own
There’ll be old friends walking ‘round
In a somewhat familiar town
That you saw once when you looked up from your phone

Phoebe Bridgers, Garden Song (Punisher, 2020).

    Nel fare la parodia della parodia, Jarmusch approda a un terzo formato del film sugli zombi: torna a Romero – i cui film sono stati l’oggetto iniziale della parodia – per concludere con un autentico commento politico e sociale, sottile, rinnovato e per questo nuovamente efficace.


Emma Mattiussi
vorrebbe occuparsi solo di libri e di film, anche se per la gran parte del tempo deve gestire le conseguenze della zombificazione.