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Coniglio nero

di Giuseppe Fiore

Mi svegliai. Lei era di fianco a me. Indossava una maglia con un coniglio disegnato sopra. Mi pulii gli occhi e cercai la luce dalla finestra. Era buio, le tapparelle erano abbassate. Provai un senso di nausea non trovando la luce. Mi alzai di scatto, come per risucchiare aria nel movimento di salita. Lei si mosse, avvertì il movimento brusco, non si svegliò. La lasciai dormire. La guardai, dal collo in giù poggiava sul materasso, sembrava magra, piccola, lontana. Intorno foto di lei attaccate secondo logica sulle pareti. Mi alzai cercando di spostare poco il lenzuolo e il piumone. Per un attimo pensai di andare via, tornare a casa, farmi un caffè senza dover affrontare il viso, i capelli e quello che sarebbe accaduto dopo, una volta sveglia. Le mie scarpe erano sul pavimento, al bordo del letto. Slacciai i nodi con difficoltà. Mi infilai le scarpe. Ero ancora indeciso sul da farsi, pensai alla sua reazione se non mi avesse trovato lì, di fianco a lei. Mi sedetti sulla poltrona di fronte al letto, nel buio dell’angolo destro, dove non arrivavano nemmeno i deboli fasci di luce attraverso le tapparelle. Continuai a guardare il materasso. Mi venne un attacco di pianto e piansi in silenzio. Piansi finché non sentii una sveglia suonare e una luce di fianco la sua testa. Allora smisi e aspettai che si svegliasse.    
     Lasciai la macchina nel parcheggio a spiga. La chiusi e mi avviai verso l’ufficio. Lì c’era già la mia collega. Salutai con un cenno, mi tolsi il giubbotto e mi sedetti alla scrivania. Iniziai a fare le solite cose, controllo mail, controllo messaggi, controllo portale e nuove iscrizioni. Dopo mezz’ora presi il telefono, guardai le storie. Lei ne aveva messa una. Un albero giallo d’autunno. Bloccai il telefono e tornai sullo schermo del computer. Sentimmo un rumore strano, una specie di ticchettio. Guardai la mia collega, fece segno di fare silenzio. Ci alzammo insieme, il rumore veniva dal bagno. Si avvicinò alla maniglia e con un secco movimento aprì. Un coniglio era nascosto nell’angolo più buio. Aprendo, venne fuori. La mia collega urlò forte, tant’è che dall’altro ufficio, altri miei due colleghi corsero a vedere. Aprendo la porta lasciarono scappare il coniglio. Era nero. Non avevo mai visto un coniglio così grosso. Lasciammo calmare la mia collega, ripeteva in maniera ossessiva la parola “coniglio”. Le demmo da bere un bicchiere d’acqua. Tu non sei per nulla agitato, disse uno dei miei colleghi. Scossi la testa, è solo un coniglio, dissi.
Quella sera scesi dalla macchina, suonai il campanello e salii le sette rampe di scale. Lei stava finendo di mangiare, mi appoggiai contro la finestra e fumai una sigaretta. Mi cominciò a parlare della sua giornata. Poi mi disse di aver fatto un sogno. Buttai giù il filtro della sigaretta, chiusi la finestra, mi lasciai cadere sul divano. Guardai ancora fuori dalla finestra.
     Nel sogno era in una specie di tunnel. Era buio e non vedeva nulla, andava avanti perché sentiva di dover andare in quella direzione. Arrivava in una stanza, ci doveva essere una grata sopra o qualche buco perché c’era un filo di luce. Nella stanza una gabbia con un coniglio nero, la guardava. Cercava di scappare, non trovava l’uscita. Sentiva il coniglio muoversi nella gabbia, lo sentiva uscire fuori, toccarle con le orecchie le gambe, un tocco ruvido, sporco, la infettava. Iniziava a urlare, forte, sempre più forte, finché non si era svegliata urlando. Era nel letto, io non c’ero.
     Sedetti davanti al computer in ufficio. Girovagai nelle pagine del portale, leggendo qualche nome e qualche commento. La mia collega entrò, aveva preso un permesso. Mi salutò, sistemò la borsa sul tavolino di fianco alla scrivania e prese ad accendere il computer. Poco dopo chiusi una sigaretta, mi infilai il giubbotto e uscimmo. Girammo intorno all’edificio e arrivai al parcheggio. Lì vedemmo il coniglio. Ci sedemmo sul muretto e fumammo. Fissammo il coniglio, si muoveva come un qualsiasi animale. È lì, dissi. Dovremmo chiamare qualcuno, disse prima di rispondere ad una chiamata infinita.
     Salii le rampe di scale. Era stesa nel letto. Mi avvicinai, le toccai la testa con il palmo, non scottava troppo. Mi sedetti sulla poltrona, c’erano dei suoi vestiti sopra, mi ci sedetti lo stesso. Osservai le stelle sul soffitto, adesivi luminosi. La metà delle ragazze oggi ha vomitato, disse. Abbiamo fatto il pranzo, hanno mangiato dopo aver preso i farmaci, le abbiamo mandate in camera a riposare, dopo un’oretta ci sono venute a chiamare perché stavano male. Fino alle sette erano già in otto ad aver vomitato. Abbiamo chiamato una dottoressa, ne ha visitate alcune e poi è andata in cucina. Ha voluto vedere la carne che abbiamo servito ed era marcia. Carne di coniglio nera da quanto era marcia.
     Entrai alla solita ora in ufficio. C’era calma. La mia collega già seduta batteva sul computer. Appesi il giubbotto, mi spostai verso la mia scrivania, mi sedetti. Cominciai a fare le solite cose. C’era silenzio. Nell’ufficio di fianco, pensai, altre due persone sono nella stessa nostra posizione, fanno le nostre stesse azioni, hanno lo sguardo su un computer per ore. La vetrata del nostro ufficio dava su un giardinetto, con dietro la strada. Fu in quel giardinetto che arrivò il coniglio. Appena lo vidi, guardai nello schermo in basso a destra l’orario, erano le nove e cinquanta. Ancora le nove e cinquanta. Con la testa direzionata verso lo schermo osservai il coniglio. Per lunghi tratti della mattinata mi fissò anche lui attraverso il vetro. Mi alzai per andare in bagno. Tornando lo vidi ancora lì, era più grosso, come se le sue zampe, la sua pancia, fossero cresciuti sotto i miei occhi in quelle ore. Pensai che era bello, nonostante il pelo sporco poteva far paura. Alle dodici e trenta sentì la mia collega che si metteva il giubbotto per la pausa pranzo.
     Quando tornai lei era in piedi davanti alla finestra. Guardava la strada. Mi sedetti sul divano. Era buio già da un paio d’ore. Il riscaldamento veniva su dal pavimento. Si stese per terra, con una coperta sotto. Dovrei mettere delle stelle sul soffitto anche qui. Continuai a pensare al coniglio. Anche mentre mi parlava di una ragazza che aveva del tutto smesso di mangiare, sarebbe arrivata ad avere un sondino nel naso.
     Facemmo una breve riunione tutti nel nostro ufficio. Rimasi seduto ad ascoltare gli altri. Parlai poco dei miei clienti e delle ricerche che stavo seguendo. Prendemmo un caffè, una decina di minuti. Tornammo a sederci davanti al computer. Sentii la mia collega parlare al telefono. Per due volte mise giù la chiamata e il telefono le prese a squillare qualche secondo dopo. Cominciai a girare sulla sedia. La stanza si disgregava mentre giravo. Verso le sedici la collega dell’ufficio di fianco venne da noi, invitandoci a seguirla. Entrammo nell’ufficio di fianco, identico al nostro, se non per una piccola libreria in più sul lato destro. Ci portò in bagno, qui, sull’uscio, c’era l’altro collega, fermo. Entrate, guardate dalla finestra, disse. A terra era posizionato un piccolo rialzo. Mi issai e osservai. La finestrella dava sul parcheggio dietro. Qui c’era il coniglio nero, solo che, rispetto al giorno prima, era cresciuto di almeno due taglie. Era evidente. Lasciai che guardasse anche la mia collega. Rimanemmo un quarto d’ora lì, parlando di quali misure adottare. Rimasi zitto. Parlarono del padrone, delle case vicine da cui poteva essere scappato. Il mio collega propose di chiamare la forestale. Nessuno disse nulla sul fatto che stesse crescendo a vista d’occhio. Infilai le mani in tasca, non ascoltai quasi più. Tornammo nel nostro ufficio, quel giorno le sette arrivarono presto, non so perché. Sentii la mia collega che spegneva tutto, la imitai.
     Entrai, c’era una forte puzza di bruciato. Corsi in cucina. La trovai stesa per terra, con i piedi in alto, sul lettone. Mi sedetti sulla poltrona. Certe volte, mentre sono tutte lì, sedute che dovrebbero mangiare, assumono tutte la stessa posizione e da dietro sono uguali, identiche, scheletriche, un essere unico che si spezzetta in tanti singoli esseri. I capelli neri le scendono per terra creando una specie di casco. Ho fatto casino, ho bruciato della carne, l’avevo messa sul fuoco, mi sono addormentata sul divano mentre cuoceva. Mi ha svegliato la puzza, ho tenuto le finestre aperte per un po’. L’ho mangiata lo stesso, ho grattato via la parte bruciata della carne. Era nerissima.
     Mi svegliai alle cinque. Ero dritto nel letto, aprii gli occhi di scatto e non riuscii più a chiuderli. Avevo cose da fare, scadenze da rispettare. Rimasi per due ore steso. Lei si muoveva di fianco a me, sentivo la forma scheletrica del suo corpo sfiorare il mio. Uscii di casa, sentii qualcosa nell’aria, ancora la puzza di bruciato.
     La mattina passò tranquilla. La mia collega batteva sul computer, io quasi nulla. Non accesi nemmeno il telefono aziendale, mi sentivo stanco. Mangiai un panino in macchina, aspettando la fine della pausa pranzo. Mi sedetti alla scrivania. Il pranzo lo sentivo sulla pancia, mi alzai e andai in bagno. Mi piegai sul water con la faccia quasi dentro. Fare rumore era inevitabile. La mia collega avrebbe sentito il raschiare della mia gola. Il tutto durò un attimo. Sentii il succo salire, arrivare in gola e uscire, producendo rumore. In quel momento, tutto fu coperto dalle urla. Sentii rumori di ogni tipo, rimasi piegato con il succo che ancora veniva fuori e non potevo far nulla, mi sarei vomitato addosso. I rumori durarono pochi secondi, afferrai della carta igienica e mi pulii intorno alla bocca. Sentii graffiare la porta, poi poco alla volta aprirsi. Non avevo acceso la luce del bagno. Vidi il raggio di luce venire da oltre la porta. Poi gli occhi e il muso. Era ancora più grande. Mi guardò da lì. Rimasi immobile, con la schiena piegata e in mano ancora il fazzoletto sporco. Mi fissò. Sul muso, a livello dei denti, gocciolava del liquido. Le pareti si strinsero intorno a me, una gabbietta troppo piccola per il mio corpo. Stavo per urlare, quando sparì, si girò, lasciando chiudere la porta. Mi stesi per terra. Ancora il rancido in gola. Uscii dal bagno. Nell’ufficio il caos. Per terra macchie di sangue, di fianco alla mia scrivania, il mio zaino aperto. Raccolsi il coltello da terra, lo infilai nello zaino e chiusi. La vetrata davanti era rotta in diversi punti. Mi infilai la giacca, uscii. Nell’ufficio di fianco la situazione era identica. Entrai in macchina. Sul sedile di fianco ancora la carta del panino che avevo mangiato. Mi salì un altro conato. Provai a vomitare sulla strada, non venne fuori nulla. Scesi e mi avviai oltre il guard rail, in un prato freddo. Andai in fondo. Scavai, svuotai quello che avevo nello zaino. Allora vomitai, proprio dentro la buca, sopra il coltello. Mi tolsi il giubbotto, sotto la felpa era sporca. La infilai nella buca, poi chiusi. Infilai il giubbotto sulla maglietta bianca a maniche corte. Tornai alla macchina. Non mi venne nessun altro conato.
     Feci di corsa le sette rampe di scale. Infilai la chiave nella porta ed entrai. Lasciai lo zainetto all’ingresso. La trovai seduta, mi dava le spalle, il petto era nudo. Mangiava con foga piegata con la testa verso il piatto. Tra le scapole un buco, ci avrei potuto infilare l’intera mano. Mi sedetti di fronte. Mangiava carne. Mi si avvicinò, arrivando quasi con le ginocchia sul tavolo. Con un fazzoletto mi pulì al lato della bocca. Mi passai la lingua sulle labbra e sulla parte superiore e inferiore ad esse. Sentii un sapore rancido, di ferro. Lasciò il tovagliolo sul tavolo, lo guardai. Era macchiato di rosso, lo presi e lo buttai nel cestino. Mi accorsi che anche il pantalone era macchiato. Lo tolsi, lo infilai in lavatrice, c’era solo quello, la feci partire lo stesso. Mi stesi per terra e aspettai che il caldo arrivasse dal pavimento fin dentro al mio corpo, fino alle ossa. Sul soffitto, pensai, ci starebbero bene le stelle anche qui.

Giuseppe Fiore nasce a Matera e vive a Parma.
La sua serie preferita è Lost.
Sempre troppo serio, dovrebbe imparare a scherzare. 

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