di Giovanni Cursano

Diciamo che, solitamente, controllo il corridoio. Non immaginatevi torce, pesanti mazzi di chiavi e ronde notturne, nossignore: siamo solamente io e il corridoio, uno di fronte all’altro.
Lo osservo, perlopiù. Pareti azzurrognole, lampadari appesi al soffitto, parquet color ocra. Sissignore, il mio compito consiste semplicemente nel limitarmi a osservarlo. Potrebbe suonare alienante, per alcuni, ma non sono il tipo che si lascia scoraggiare facilmente. All’inizio, appena assunto, mi facevano stare in piedi, ma dopo qualche settimana non ce la facevo più a starmene lì impalato per ore, e allora ho chiesto che mi dessero una sedia o qualunque cosa sulla quale potessi sedermi. Cavolo, non immaginavo che avrei smosso un tale polverone per una richiesta del genere, così semplice. Il giorno dopo, nonostante mi fossi presentato in orario come al solito, ho trovato un gruppo di tecnici ancora intento a installare la sedia da me richiesta. E con installare intendo proprio installare, pareva stessero montando uno di quei macchinari industriali che vedevo tutti i giorni quando lavoravo in fabbrica. Ma io non ne capisco molto. Quel giorno il direttore dell’albergo, ed era la prima volta che lo incontravo dopo il colloquio, non mi ha spiegato più di tanto a cosa servissero tutte quelle viti, bulloni e tubi metallici. Sicuramente ha parlato di qualcosa che aveva a che fare con il mantenere la sedia “ancorata”, ma devo ammettere che non me ne importava molto e quindi immagino di non averlo ascoltato con attenzione. Mi interessava solamente sapere che da quel momento in avanti avrei potuto sedermi, e sinceramente non ci avevo sperato più di tanto. Sì dico, lo controllo. Controllo. Sì, me ne sto fermo, seduto esattamente tra la porta della camera 605 e quella della camera 606, a controllare il lungo corridoio che conduce al settore con le camere dalla 651 alla 659. Se guardo dritto davanti a me, infatti, a ricambiare lo sguardo c’è il punto che si trova esattamente tra la camera numero 655 e la 656. Cioè, tra me e quelle camere c’è il corridoio, ovviamente. No, dubito superi i dieci metri di lunghezza. Certo che non ne sono turbato, è un corridoio, diamine. No, certo che non c’è nulla di strano in quel corridoio. Non lo so neppure io a cosa servo effettivamente, ma, ripeto, un salario del genere non ti viene offerto tutti i giorni. Certo, ultimamente me la cavo benissimo, posso chiedere il perché della domanda? Irina ha smesso di stressarmi da quando lavoro a tempo pieno, anche se ha ricominciato a lagnarsi della storia dei figli. No, nossignore, mai avuti e non ho alcuna intenzione di sfornare alcun pargolo. Sanguisughe, credete a me. Certo, ammetto di essermi incuriosito, una volta, riguardo a quel corridoio, ma parlo degli inizi, di quando avevo iniziato a lavorare lì, nell’albergo, da pochissimo. No, sinceramente del corridoio in sé o delle storie che continuavo a sentire a riguardo non me ne poteva importare di meno; immagino le storie le abbiate sentite anche voi, scemenze. Più che altro mi domandavo sempre come mai l’impiegato precedente avesse deciso di mollare un lavoro del genere. Cioè, vediamo di capirci, ne ho girati di lavori diversi io, e una paga così sostanziosa non me la ero mai neanche lontanamente immaginata! E credetemi che ho toccato con mano ogni genere di mansione infernale per la quale viene domandata la collaborazione di un onesto lavoratore, oggi come oggi, e visto con i miei occhi la paga ridicola per la quale esse vengono retribuite. Ah, “mansione infernale” immagino non lo abbia detto per puro caso, furono infatti esattamente le parole che utilizzò quel tizio, il mio predecessore, quella volta che sono riuscito a incontrarlo per domandargli come mai avesse abbandonato il lavoro. Al bar qui di fronte, sì. Forse lo potete trovare ancora lì, un tizio smunto con gli occhi scuri. “Perché quella è una mansione infernale”, mi ha riposto. O qualcosa del genere, forse. Superstizioso beota. Immagino si fosse lasciato impressionare dalle storie che giravano a proposito di quell’albergo, e di quel corridoio in particolare. Ma nulla, storie! Non le avete già sentite, dunque? Uno dei cuochi del posto, che era un tale con il quale avevo svuotato e caricato container presso il porto, e con il quale avevo ai tempi fatto amicizia, mi ha raccontato di una volta in cui è sparito un ragazzo, proprio in quel corridoio. Ma si parla di tantissimi anni fa, anni ’50 come minimo. No, non saprei dirvi quando l’edificio è stato costruito. Sì, questo ragazzo pare che un giorno sia sparito, nel nulla. La madre si volta un attimo, mentre il piccolo entra nel corridoio, in quel corridoio, poi si volta nuovamente e il piccolo non c’è più. Banalmente, cose del genere succedono tutti i giorni. Una volta una collega con la quale lavoravo in fabbrica ha fatto un gran putiferio perché era scomparsa sua figlia. Era venuta insieme a lei al lavoro, come al solito, immagino non potessero permettersi una tata, e lei era sparita. Così. Un casino enorme, grida e schiamazzi e l’intera fabbrica in stallo per una bimba sparita per neanche mezz’ora, infatti l’abbiamo ritrovata subito dopo sotto a uno dei tavoli del reparto falegnameria, che giocava con i trucioli. No, per quel ragazzo disperso nel corridoio non è stato così semplice. Come? Sì, sì, lo hanno ritrovato. O un ragazzo che gli assomigliava. No, dico, perché erano passati qualcosa come quindici anni da quando il ragazzo era scomparso. Esatto. Un giorno, così, quindici anni dopo, il ragazzo è stato ritrovato a pochi metri dell’esatto posto nel quale era scomparso. Non all’inizio del corridoio, dove sto piantato io, per capirci, ma dalla parte opposta, alla fine, a venti metri di distanza. Capite perché dico che probabilmente semplicemente gli somigliava? Ma comunque si tratta di cose successe ben prima che arrivassi io, quindi non saprei neanche dirvi come è andata a finire quella faccenda. Immagino ci sia bisogno di qualcuno che lo tenga d’occhio. Il corridoio, dico. Probabilmente se lo si osserva è più difficile che si comporti in modo anomalo. Com’è quella storia della luce? Che se uno scienziato la osserva lei non si comporta come dovrebbe? Non che ne capisca più di tanto, è qualcosa che ho sentito una volta.
Cioè, vi dirò, non che mi metta allegria, quel corridoio. C’è qualcosa nello sfrigolio delle lampade a olio appese alla parete, nella loro fredda simmetria, e nel verdognolo di quella carta da parati, e in quella moquette cremisi, che non convince, che potrebbe facilmente turbare qualcuno. È il silenzio, immagino, è l’opprimente sensazione di non trovarsi da nessuna parte, in nessun luogo riconoscibile e definibile come tale. Riesco a immaginare come una sensazione del genere possa mandare qualcuno fuori di testa. Ah! Cristo, scusate, non so cosa mi sia preso. Sto bevendo troppo, anche stasera. Alla vostra! Ve lo offro io! Poi c’è stata la storia di un tale, un fattorino, che pare si sia perso in quella zona dell’albergo. Ah! Ma ci pensate? Perdersi nel luogo dove si lavora tutti i giorni, mangiare quello che si riesce a trovare dentro a delle valigie, per paura di morire di fame!
Sì, sì! Ve lo assicuro! Probabilmente ha svoltato l’angolo sbagliato e si è perso per chissà quante ore tra quelle pareti giallognole, senza che nessuno lo incrociasse o si fosse accorto che era sparito.
Ha aperto le valigie che trasportava con sé e ha mangiato dei cracker che vi ha trovato dentro!
Ve lo garantisco! Poi l’hanno ritrovato lì, rantolante e ansimante, al centro del mio corridoio. Ridicolo, a balbettare qualcosa sulle lampadine e su un’enorme sala da ballo nella quale si era ritrovato a vagare, mi pare. Dico io, perdersi in un corridoio lungo sì e no cinque metri. Oso solo immaginare la lavata di capo che avrà dovuto sorbirsi dal direttore. Ah sì, certo, una volta anche a me è successa una cosa strana. Ho visto Rosa, nel corridoio. Sì, Rosa. Ah, lei era, e dico era, una ragazza con la quale mi frequentavo chissà quanti anni fa. Una delle poche delle quali non mi sono scordato, chissà perché. Sarà per quella combinazione di occhi verde smeraldo e capelli corvini, ma non saprei. Fatto sta che eccola lì, durante un giorno come tutti gli altri, Rosa in carne e ossa, in piedi al centro del corridoio, che mi fissa e mi sorride. E tende le braccia verso di me, come a chiamarmi. Sì, sissignore, Rosa in carne e ossa, avrei potuto alzarmi e toccarla esattamente come potrei alzarmi e toccare lei in questo momento. Nossignore, ovviamente non l’ho fatto, per chi mi ha preso? Fedele fino alla morte alla mia Irina, e al piccolo Francisco. Sì, ah! Lo ha scelto lei il nome. Il moccioso mi snerva sempre perché vuole venire a visitare il papà nel posto dove lavora, ma mi dite che dovrei fare? Portarlo con me a fissare un dannato corridoio? Una volta ho preso in considerazione l’idea di portare entrambi a far visita all’albergo, per vedere quanto è sontuoso il luogo dove lavoro, ma l’ho scartata quasi immediatamente. Rosa? Ma, in realtà dubito si trattasse di lei, probabilmente solo una cliente dell’albergo che le somigliava, sul momento ho dato la colpa al cognac che nascondo all’interno della borraccia. La borraccia che mi hanno fornito quelli dell’azienda proprietaria dell’albergo. Ma non diteglielo. Ah! Non sarete mica di, quella cosa lì, umana, delle fonti umane? Meno male! Le vecchie abitudini, sa? Lungi da me voler finire nei guai. Vorrei vedere lei, bloccato lì, ogni giorno tutti i giorni, a fissare quel dannatissimo corridoio!
No, esatto, c’era qualcosa di strano in Rosa. Non era esattamente come la ricordavo. Cioè, era esattamente come la ricordavo, il che è strano perché sono passati chissà quanti anni. Per questo le dico che era qualcuno che le somigliava! No, il fatto è che non riuscivo a vederla distintamente. Avevo lo sguardo come annebbiato. C’è questa immagine di lei, che non riesco a togliermi dalla testa da tanti anni, il suo viso mentre si pettinava di fronte allo specchio del bagno di casa sua. Non avevo un’ottima visuale, dall’angolo dal quale la stavo spiando in quel momento, quindi per qualche gioco di luce strano era come se in quel momento non avesse il volto. Ecco, vederla lì in mezzo al corridoio mi ha fatto provare la stessa sensazione di sgomento. No, non tanto paura, quanto una perdita di fiducia rispetto alla mia capacità di comprendere la realtà di fronte ai miei occhi. Colpa di quelle luci al neon, di quel ronzio. Qualcosa in quelle pareti ambrate e di quelle insipide mattonelle color avorio che lo percorrono da parte a parte. Colpa della prospettiva dalla quale sono costretto a osservarlo ogni giorno. Come? Sì, da quando ci sono io pare che il corridoio si sia comportato bene. Ma io non ne capisco molto, dovreste domandare a qualcuno più esperto di me. L’azienda proprietaria mi ha offerto anche la possibilità di trascorrere le ferie all’interno dell’albergo, e vi dirò che non mi sembra un’idea malvagia, ma andarci da solo, così, mi sembra alquanto triste. Avessi una compagna, o una famiglia, forse avrei potuto prendere in considerazione l’offerta, ma ora come ora, conoscendomi, passerei tutte le ferie a bruciarmi il salario svaligiando il piccolo frigo all’interno delle camere. Ma ora, spiegatemi, come mai quel corridoio vi interessa tanto? Riconosco il suo sguardo, spero di aver reso chiaramente l’idea del tipo di salario che mi aspetto, per un impiego! Nessuno è bravo a osservare quel corridoio come il sottoscritto, chieda a chiunque.
Un altro? Oh, grazie infinite! Alla salute! Alla vostra!
Giovanni Cursano ci fa sprofondare nel suo limbo silenzioso e a noi non resta altro che guardare le pareti cambiare colore.
Nato nel 1999, è laureato in Scienze Filosofiche presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo, “Ragazzo che dipinge”, nel 2024 ha diretto il suo primo lungometraggio, “Cura e Malattia”. Attualmente, oltre all’occuparsi di ricerca accademica nell’ambito della filosofia contemporanea, prosegue la carriera all’interno del mondo della produzione cinematografica, occupandosi di regia e screenwriting.