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Apnea

di Serena Covella Majulli

    Una battuta nella classe fa esplodere una risata, una battuta di Dio, ovviamente; perché noi, una volta entrati qui, non sappiamo più l’umorismo e persino le domande suonano sbagliate, scomposte, inutili, tediose. 
    Dunque sono in un punto preciso di una città che potrebbe essere Torino ma anche Lisbona, o Nizza, o un vascello spaziale. Sono quella, oltre i vetri dell’aula Mansfield, terzo posto dalla finestra, seconda fila, agganciata alla sedia minuscola col tavolinetto reclinabile come da bambina stavo aggrappata al vassoio del pasto della mensa all’asilo; vorace; qui niente vassoio con la polpetta, ‘sto blocco in mano, pronta ad appuntarmi ogni parola, ogni sguardo, ogni autore e nota bibliografica, rigorosamente in apnea finché non ne posso più di annaspare nel miasma del mio vicino di sedia a cui sporgo una confezione di Vigorsol: «Vuoi una gomma? È senza zucchero…» «No grazie, mi fanno male allo stomaco.» Al tuo, di stomaco, ci pensi ma al fatto che io devo respirare il tuo alito no. Stronzo. Ovviamente non te lo dico che coi tuoi miasmi mi guasti l’atmosfera rarefatta, tutta sorrisi gentilezza e benessere, anzi felicità, che potrei respirare in questa scuola, in quest’aula acquario; e magari trasformarmi in una scrittrice, che è insomma quello che tutti si aspettano dopo essere stati qui. Specie se si è così fortunati da incappare nel miracolo dell’apparizione di Lui: tutti convinti che un suo semplice contatto visivo, uno scambio di sguardi, una stretta di mano, due parole, un manoscritto inviato… Sogni della peggior specie, perversioni. 
    Mi chiedo, tra i soffitti alti e i cassettoni lignei e i vetri a separare le aule e dare questa illusione di trasparenza e prossimità, mi chiedo oltre quali porte Lui si vada a nascondere, dove passa il tempo, come trascorra la Sua vita da Dio qualunque cosa faccia: mi sono avventurata una volta a cercare la Direzione ma mi hanno tanto gentilmente allontanata. Mi accontento di assistere a una Sua lectio magistralis e confido che la Sua visione sia sufficiente a ispirarmi, a rendermi una persona migliore, una Scrittrice con la S grande quanto la smania di dirmi scrittrice, qualsiasi cosa significhi, e io onestamente non lo so ma sono qui per scoprirlo. Il processo osmotico di condivisione di luoghi e corridoi e soffitti alti e scorci sui platani della piazza e ossigeno potrebbe forse bastare a fare di me ciò che la mia ambizione vagheggia. Chissà quante finestre, chissà quali, Lo hanno visto affacciarsi e riflettere per ore sul suo ultimo romanzo, o saggio? Rinuncio alla rivelazione e ritorno in apnea, masticando furiosamente gomma senza zucchero, con un tale lavorio di mascelle da alimentare un ricircolo della mia stessa aria piperita a folate, che mi pare di starci davvero sul ponte di Brooklyn. Ma dura due minuti e mezzo, poi la gomma-lunga-durata non sa più di niente e devo ruminarne un’altra o tornare nella fogna.

    […] si tratta di sogni, che nei romanzi è meglio non usare, VIE- TA- TI, ma c’è chi ne produce chilometri: ad esempio tutti i personaggi di Bolaño sognano

    Penso al fatto che ci sono anche sogni reciproci e personaggi che si sognano e poi si telefonano per dirsi che si sono sognati: Bolaño potrebbe raccontarmi per quindici pagine la composizione polimerica di queste seggiole e io la leggerei incantata. 
    Un concetto molto interessante ritorna più volte ed è il seguente: questo se non sei divino non lo puoi fare, se sai scrivere sì. Insomma se so scrivere mi pare che posso fare il cazzo che voglio: pensavo di stare alla Frenzen e che mi insegnassero COME si scrive, invece ho cinque anni e sono tornata dalle suore che mi insegnano cosa NON si tocca, NON si mangia, NON si fa, NON si pensa nemmeno! Ritrovo la stessa paura che mi faceva suor Ada, immensa e spietata, con un’accurata alternanza di denti neri e bianchi a scacchiera che me la rendevano ancora più terrifica: temevo che suor Ada mi leggesse dentro e potesse punirmi per le cose cattive che io nemmeno immaginavo contenesse la mia anima e che lei poteva vedere e io no. 
    A quarant’anni, come allora, ho il terrore che questo Dio frenzeniano mi possa leggere le didascalie letterarie e quelle intime come fossero appiccicate alla mia nuca. Terrore di non essere abbastanza colta, abbastanza lettrice, abbastanza arguta abbastanza chic, insomma abbastanza-qualsiasi cosa sia necessario avere per stare qui. Eppure ho pagato, per dio! (qui impreco un altro dio, non quello di prima, che proferisce vaticini letterari, ma quello che sta in terra e in cielo e in mare, quello che forse esiste o forse no, che vorrei fosse femmina ma me l’hanno sempre raccontato maschio, e che comunque, se ci vuoi credere, è un dio gratis, per tutte e di tutti). Invece questo Dio frenzeniano esiste eccome, e ha un nome proprio che non posso pronunciare per una sorta di iconoclastia nominale ma lo distinguo da quello generico, quello gratis, quello di tutti, e gli dedico pure la maiuscola, anche se questo Dio Letterario si paga, quindi è solo mio e di quelli che hanno pagato come me (beato capitalismo che ci fa credere ancora, e toccare, quasi, annusare, forse ascoltare, chissà, la parola di Dio, anche a una come me così imperfetta incompleta bisognosa di essere plasmata a immagine e somiglianza di Dio).
    Uno studente brizzolato percorre il corridoio oltre il vetro, poi si volta lentamente verso il nostro Dio intento a fare lezione e lentamente si assesta oltre l’acquario a bocca aperta; ci manca soltanto che metta le dita sul vetro e gli scendano bave lungo la bocca. È uno vecchio, come me, e mi fa tenerezza perché non ha ancora imparato la prima regola della Società Letteraria: si deve fingere di essere tutti uguali. Ma solo quando si è nell’acquario. Chissà se anche il brizzolato avrà provato, dopo infiniti ripensamenti e quindici stesure, a scrivere un’email a Dio? Come si fa a chiedere qualcosa proprio a Lui, e a farlo in poche righe, concise, precise ma chiare, in modo da non risultare superficiali né prolissi o peggio ancora pedanti anzi facendo intuire uno stile, una verve, un’anima scrittoria accattivante, tale da incuriosire Dio stesso e spingerlo a risponderti? Come si fa a mostrare consapevolezza della grazia che si riceve nel poter scrivere direttamente a Dio e forse, ma forse, sperare in una Sua risposta; come si fa a essere grati ma non patetici, brillanti e arguti senza saccenteria, a dare un brevissimo saggio della propria capacità di scrittura in una mail così… Troppe aspettative: un mese di dolori di stomaco e la prima di una lunga serie di delusioni. Perché Dio non risponde alle email dei suoi studenti. Dio risponde solo a chi, quando e come ne ha voglia, ma soprattutto se, e questo non fa che alimentare il suo ruolo di essere superiore imperscrutabile. 
    Insomma ho capito che qui alla Frenzen si ritorna proprio all’ABC della dottrina: Dio ti somiglia, ma non è come te, non in senso ontologico, altrimenti saresti un po’ Dio anche tu e, checché ne dicano le sacre scritture, alla Frenzen le cose vanno così. 
    La promiscuità di condividere lo stesso spazio, la stessa percentuale di ossigeno, ti porta a pensare che proprio la stessa aria si è fatta un giro nei miei e nei polmoni di Dio, e che sistema cardio circolatorio e impulsi elettrici non possano che essere stati contaminati di divinità. E perché non farsi aspettative assurde anche sugli impulsi muscolari che quell’ossigeno san(t)ificato possa aver emanato alla mano, alle dita, infine ai tasti del computer, se si scrive a computer, ai giri di inchiostro, se si scrive a mano?… E invece niente, non si diventa scrittori. Ecco perché, ora lo so, l’ho sperimentato, ciò che deve per natura stare separato è importante che tale rimanga: ora io so che le scuole di scrittura sono luoghi infernali, concepiti dal demonio allo scopo di tenerti imprigionato a vita in desideri irrealizzabili.
    C’è del triste divertimento nel pensare che, semplicemente pagando, ci si possa permettere una consistenza divina bell’e nuova, in barba a quella umanissima toccataci in sorte dalla nascita, per il semplice fatto di viverci per alcune ore accanto, al Divino, in una scuola acquario.
    Lo studente brizzolato sta appannando il vetro, mentre nel nostro acquario il Divino aleggia e parla parole di Letteratura con squisita gentilezza, un sorriso e uno sguardo ogni due secondi su ognuno di noi: Dio è felice di essere Dio, ma anche che noi non lo siamo, è evidente. Più sorride, più è evidente.
    Non ci resta che soffrire e cercare di inspirare quanta più aria e ossigeno divino ci è possibile. Illusi e ingenui. 
    Ce lo meritiamo di non essere Dio.

Serena Covella Majulli
Insegnante di Lettere, cantautrice, pratica diverse forme di narrazione e conduce laboratori di scrittura autobiografica in cammino e sui sentieri Partigiani della Val Maira, in cui vive. Nel 2024 ha pubblicato un saggio, Il cammino nella Resistenza in provincia di Cuneo, sulla rivista Farestoria dell’Istituto Storico della resistenza di Pistoia, e un racconto, La corrente, sulla rivista online «Malgrado le mosche».