di Rocco Cannarsa
Angela è così ingenua che a volte non la sopporto. Si prende la libertà di darmi consigli di una innocente sensibilità cristiana, pur sapendo che il suo approccio alla vita non ha nulla a che vedere con questo mondo di cani al quale ho scelto di appartenere. Le voglio bene, per carità. Spesso mi riporta quel candore che avevo quando ero bambino, quella tranquillità, la spensieratezza di una visione incantata della realtà. E io per questo la odio profondamente, perché sono cresciuto e Angela non mi ha portato che a decisioni autodistruttive in nome di una giustizia ideale. Tra amore e odio, però, resta un’importante parte di me, sempre pronta a partecipare dei miei drammi intellettuali. Sara è tacita. Non so niente di lei, e data la sua presenza assidua ciò mi risulta alquanto inquietante. Sebbene non dica mai nulla, so che c’è e che ascolta tutto. Delle volte dimentico quasi che voce abbia, così le chiedo qualcosa, ma lei fa percepire come un alzarsi di spalle, e rimane in silenzio. Poi c’è quel momento in cui davvero non so che pesci prendere, ed eccola lì, Sara, a darmi quell’idea che ha del genio e risolve i problemi. Marco è l’intellettuale. Sarcastico, la voce narcisista, egocentrica e superiore a tutto e tutti nel mio immaginario. Eccentrico e diabolicamente cinico, oltre che a scegliermi il vestiario ogni mattina, mi indirizza verso decisioni di strategia tanto fine da farmi sembrare la vita che ho voluto quasi dotata di senso. Mi incoraggia a non mollare, mi dice che spaccherò di brutto, che ci sta che qualche idiota mi chiuda una porta in faccia all’inizio e che non devo lagnarmi dell’anonimato di cui mi sento pregno se so chi sono e cosa voglio. Non ricordo mai come si chiami quello che mi fa scrivere. Non è una musa. È più un cazzaro con un lato poetico-malinconico, che all’improvviso se ne esce con: «Cazzo, qui ci starebbe una bella storia». Il nome non l’ho mai capito, che quando lui arriva mi trova sempre ubriaco e in quei momenti non ci capisco niente. Mi invita a tacere, ad ascoltare “il vento dei suoni del mondo”. Così, muti e allucinati dalla meraviglia della vita, ci finiamo le bottiglie. Poi c’è Michele, quello che vuole rubare le idee degli altri e lavorarle in mille modi rendendole proprie ad occhi estranei. E quasi quasi riesce anche ad illudersi siano sempre state proprie. Logorroico al limite della sopportazione. È acido, scontroso, a tratti violento ma solo per nascondersi una troppo grande sensibilità che lo spaventa, così basta affrontarlo con un tono un po’più duro che si mette subito a tacere. Poi c’è un brusio, indistinto finché dei toni riescono a spiccare, striduli, impertinenti, borghesi. Solitamente criticano, forti della fondatezza di cui riempiono le parole. Mi danno dell’ingenuo, dell’asociale, del fallito, del pazzo, del sognatore, dell’ubriacone, dello stronzo approfittatore della vita. «Drogato!» mi urlano ogni tanto. «Egocentrico narcisista!». «Lapalissiano e banale!». Mormorano, mormorano. E sebbene siano voci anonime che vagano in una nube di cappotti sale e pepe, spettri irriconoscibili di un’esistenza razionalmente insensata, riescono a far sì che per un attimo mostri al mondo tutta l’insicurezza che mi porto dentro. Si prendono tutto quello che dico, tutto quello che sto per dire, anzi, direttamente il concetto che vorrei esprimere e lo sminuiscono, forti del gruppo. «Ridi!» mi dice Marco. E io rido di imbarazzo, ma rido, perché Marco mi obbliga ad una sfacciataggine che coltivi un successo apparente. E mentre tento con un sorriso istigatore di una violenza bonaria di coprirmi dalla nudità del vero, «Smetti di fare l’egoista –Angela si riconosce al volo- e ascolta cosa ti sta dicendo. Smetti di pensare come le stai apparendo e guardala negli occhi». Metto tutti a tacere e in un istante ricontestualizzo la mia esistenza. Mi vedo seduto al bar, con l’alto sgabello ligneo che sfida la gravità tra il mio culo e il pavimento. Sul tavolo tondo sul quale poggio i gomiti c’è il mio Long Island, e sul posacenere sta vivendo da sé la sigaretta che fino a poco fa dovevo aver avuto in mano. Lei sta parlando. “Grazie Angela”. «Cosa sta dicendo questa papera, adesso? Sicuramente una marea di cazzate» dice Michele. “Non lo so, però sta parlando tanto, ed è un monologo”. «Vuol dire che prima o poi vorrà chiederti se pensi abbia ragione, oppure finirà, speralo, con uno “Scusami per lo sfogo, ma ci voleva”» mi illumina Michele. E Marco: « Allora io dirò: “Non devi scusarti, sono qui apposta. Spero, anzi, di essere stato utile”». Oramai ho perso il filo dei discorso, così riprendo la sigaretta e faccio gli ultimi due tiri. Cicco e sorseggio il Long Island finché vedo quel tipo. So cosa verrà a dirmi, quindi mi porto avanti fissandomi nella testa i dettagli della scena: i suoi occhi marroni che accolgono le luci e ne riflettono il bagliore, la bocca rossa di caramella e gli splendidi seni mal nascosti dalla pressione delle righine verdi. Il vento che smuove dolcemente gli alberelli rinsecchiti e giallognoli e sembra accompagnare il suo gesticolare e accogliere la fiumana delle parole portandola via, lontano da me. «Cazzo, qui ci starebbe una bella storia!» eccolo, finalmente è arrivato pure lui. Finisco il Long Island. Lei ha finito il monologo e si è come bloccata in un fotogramma sconcertato che vuole ottenere ragione e: «E tu che ne pensi?» mi chiede a bocca aperta, probabilmente consapevole del mio mancato ascolto. «Che sei stupenda. E ti giuro che nella mia testa, su questo, sono tutti d’accordo».
Rocco Cannarsa nasce a Termoli (Cb) il 29 Marzo 2000. Vive a Firenze dove frequenta la facoltà di Filosofia. Pubblica nel 2019 il racconto “Un frutto che cade” all’interno dell’antologia “Ricordi” (Mauro Pagliai Editore). Dal 2018 collabora con la rivista fiorentina “Streetbook Magazine”.