di Simone Cappellaro
Quanto dura un’ora?
Sessanta minuti, che poi sono tremilaseicento secondi. Chissà perché a volte questo tempo ci sembra volare, mentre in altre occasioni pare non scorrere mai. Mi è capitato una volta, un po’ di tempo fa. Era un giorno grigio a cavallo tra la fine di febbraio e il principio di marzo, una di quelle giornate senza capo né coda, che censurano i prati di montagna dietro a strati di nuvole basse e sporche, color nevischio calpestato.
Ebbene, quel giorno ero convinto che nessuno al mondo fosse più solo di me. Mi ero svegliato tardi, forse tardissimo, non ricordo più se ho avuto un minimo di attenzione verso il quadrante della sveglia sul comodino. In ogni caso, ho scoperto guardando fuori dalla finestra che il mondo che era stato risparmiato da quell’imballaggio di grigiore e sbadigli era ben poco. Frugando nelle varie tasche di vari jeans, recuperai un quantitativo sufficiente di tabacco tritato per girarmi una sigaretta, il mio corpo non chiedeva altro. Il fornello scintillò per qualche attimo, prima di sprigionare la fiamma che mi consentì finalmente di fumare. Non avevo alcuna percezione di me stesso, nessun pensiero in testa, nessuna voglia di fare nessuna cosa, l’agenda era libera, il frigo era vuoto. Lanciando il mozzicone giù dalla finestra, mi resi conto che non avevo altro da fumare, il che era grave, perché sarei dovuto di nuovo uscire di casa. L’ultima volta era successo due settimane prima, e non era stato un bello spettacolo. Incappucciato, inciabattato, con l’ultima doccia fatta talmente tanto prima da non ricordarmene, avevo strisciato fino al tabacchino più vicino e avevo fatto grande scorta di tutto ciò che in quel momento ritenevo necessario e quindi fumabile. Ora il problema si ripresentava, in anticipo rispetto alle mie previsioni, dato che non programmavo uscite per almeno un mese.
Tutto era una merda in quel periodo. Il sole non c’era mai, o forse quando spuntava le imposte erano chiuse, ma le giornate mi sembravano tutte ugualmente lunghe e grigie, come le barbe dei filosofi che guardavo nei quadri dei miei libri universitari. Tutti con la barba, ai miei occhi tutti identici e follemente geniali, con l’infelicità intrecciata tra i lunghi peli di quelle barbe perfette, dall’aspetto morbido e saggio. Che poi chissà se realmente fossero così le barbe di Platone e Aristotele, chi cazzo li ha mai visti? Me l’immaginavo attraverso i dipinti, tutti infervorati nelle loro elucubrazioni, mentre una folla li ascoltava in trance, pendendo dalle loro labbra. Li pensavo discutere di niente di speciale, come se stessero a cazzeggiare sotto ai portici, aspettando che fuori fosse troppo freddo per rientrare a casa. Rimuginavo spesso sulle ultime cose dette, rese tangibili dagli sbuffi di vapore nell’aria gelida, prima che silenziosamente tutti riportassero le barbe a casina.
Me l’ero immaginato diversamente il mio anno di studio all’estero. Tra le cose che non avevo contemplato, quella che mi faceva patire di più era il fatto che mi mancasse la mia città. Non l’avrei mai detto, ma quel nugolo di strade e di chiese era importante, molto più della voglia di libertà e di vedere il mondo. Ero partito per studiare e per cercare me stesso, ma forse me stesso era rimasto là a casa. Qui, semplicemente, era diverso. L’unica cosa in comune tra qui e casa è che sono sempre l’ultimo degli sfigati.
La settimana più bella da quando sono qua, è stata un mese e mezzo fa, quando sono venuti a trovarmi i miei genitori. Per l’occasione avevo ripulito il mio appartamento dalla tristezza accumulata dall’inizio della mia permanenza e, per qualche giorno, mi sono sentito a mio agio. Non saprei dire se sono riuscito a mascherare ai miei la totale mancanza di conoscenza della città, quando li ho portati a fare un giro. Siamo finiti in un piazzale estesissimo, tutto di cemento, che sembrava un parcheggio appena inaugurato, visto che non passava quasi nessuno. Ho detto ai miei genitori che era arte brutalista, che qui andava di moda stendere un rettangolo grigio per poi farci i grattacieli. Avrei preferito non uscire mai, stare a casa e vedere mia mamma cucinare qualsiasi prelibatezza, prima di rinchiuderla dentro vaschette e contenitori perché si conservasse. Con mio padre abbiamo solo giocato a scacchi, tutto il tempo, tutti i giorni. Credo avesse capito perfettamente il mio stato d’animo, ma non me ne parlò mai. Era più semplice per lui la difesa siciliana che intavolare una discussione mirata. Insegnava filosofia, e io la studiavo. Una sequenza piuttosto meccanica e priva di spazi sufficienti a far decollare la fantasia..
Mi mancavano molto. E anche le vivande preparate da mamma stavano per finire. Le chiamate internazionali erano costose, le evitavo il più possibile. Meglio la posta, anche se i tempi di consegna erano lunghi. Un mese prima di lasciare casa, avevo conosciuto una ragazza, ma prima che potesse nascere qualcosa di interessante, avevo già il culo su un aereo direzione millemila chilometri da lei. C’eravamo scambiati molta corrispondenza nei primi mesi di lontananza. Era bello, pensare a lei mi teneva compagnia e scriverle mi sembrava l’equivalente di uscire per le vie del centro storico. Poi forse l’ufficio postale aveva perduto una lettera o due, o sei, perché non ho ricevuto più niente, chissà cos’è successo.
Tutte queste cose stimolavano la mia solitudine, la alimentavano come le audiocassette che avevo trovato in quell’appartamento. I nastri erano molto consumati, il che significa che le canzoni piacevano molto al vecchio proprietario oppure che questo era triste quanto me. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo, almeno avrei avuto compagnia. Prima di scendere giù in strada, presi a casaccio alcune di quelle cassette e le gettai assieme al walkman dentro a una sacca verde militare, infilai le scarpe da tennis e uscii senza altre preoccupazioni stilistiche, tanto tutto si sarebbe esaurito nel giro di venti minuti al massimo, se fossi dovuto andare dal tabaccaio più lontano. Mentre scendevo lentamente in ascensore, mi misi le cuffie e accesi il walkman. Dentro c’era una cassetta molto consumata dei Fleetwood Mac, premetti play e in poco tempo fui in strada. Non c’era molta gente in giro, probabilmente erano ancora tutti a lavorare. Attraversai la strada in diagonale, verso il tabaccaio, ma arrivato alla porta mi accorsi che qualcosa non andava. Tutti gli scaffali erano vuoti e un cartello in lingua strana diceva cose poco comprensibili. Riuscii però a capire abbastanza di quel messaggio: una parola che somigliava a “sciopero” e una che somigliava a “tabacco”. Ero fregato.
Girai i tacchi, dovevo rassegnarmi e sperare che questa cosa si risolvesse nell’arco di una notte, o di un pomeriggio, o una pausa pranzo. Ero ancora perduto nel disordine temporale di quella giornata, e avevo lasciato l’orologio da polso su in appartamento. Pensai di provare a scroccare una sigaretta a qualche passante, per alleviare l’astinenza almeno per qualche minuto, quindi mi avvicinai alla fermata del tram, dove c’era una persona che aspettava, avvolta in un cappotto e con il viso schiacciato tra un berretto e una sciarpa bianca. Avvicinandomi, scoprii che era un signore molto anziano, e la sciarpa in realtà era una lunga barba, dall’aspetto morbido e saggio, che scendeva sul cappotto scuro e un cappello di lana calcato fin sopra gli occhi. Provai a spiegarmi con lui a gesti, ma il tram su cui doveva salire stava arrivando e mi fece capire di non avere sigarette. Con un gesto educato, come a volersi scusare, tirò fuori un biglietto orario per i mezzi pubblici e me lo allungò. Poi sparì oltre alle porte automatiche del mezzo, che si allontanò velocemente.
Quel biglietto poteva benissimo fungere da filtrino, ma non avendo tabacco né altro da fare, scelsi di farmi un giro sul tram, così da non pensare alla paglia perduta e chissà, magari avrei trovato un tabaccaio aperto altrove. Attesi qualche minuto, poi il tram arrivò, tutto bianco e verde, con i caratteri della società di trasporti scanditi in nero. I sedili in pelle bordeaux erano distribuiti ai lati, occupati da poche persone, così anche io mi incollai a un finestrino, dopo aver obliterato il biglietto.
Era scattata l’ora più lunga della mia vita. In quel viaggio, scoprii una città che respirava piano per non disturbare, che si attorcigliava su stessa come un serpente incantato dal suono di un flauto. Vidi uomini e donne camminare per le strade che non avevo mai percorso, alcuni con gli occhi persi nelle vetrine o altri con il passo svelto di chi rincorre un appuntamento dimenticato.
Tutto fluiva secondo un ritmo diverso, nuovo, piacevole nella sua discrezione, come se si scrollasse una coltre di sonno dagli occhi. Sentivo il braccio vicino al finestrino diventare tiepido sotto ai raggi del sole, anche se questo sembrava essere già in procinto di salutare tutti e scappare dietro ai palazzi del centro, svelando il suo piano di fuga con le colorazioni arancioni del tramonto che si riflettevano nei canali. Immaginavo di poter registrare tutto quello che vedevo e provavo, per poterlo consumare gradualmente come con quelle vecchie audiocassette che avevo nello zaino. Era una malinconia energetica, nostalgia dopante che mi rendeva tristemente euforico. Nella piccola dimensione di un tram, vedendo gli altri umani vivere, mi rendevo conto di quanto la mia e la loro solitudine fossero reciproche e come ognuna di esse influenzasse l’altra con la sua casualità e il suo carico di emozioni contrastanti. Le battute che scandivano il mio tempo si mischiavano con gli spartiti degli altri, creando nuove melodie, sempre diverse, in cui perdere la cognizione del tempo non era una tragedia, prima o dopo qualcosa mi avrebbe suggerito il ritmo giusto. E così fui quasi contento quando il controllore mi fece la multa e mi impose di scendere. Il tram ripartì e lo guardai finché la luce dei suoi fari gialli non si mescolò con gli altri bagliori del tramonto. Non ero mai stato così felice di camminare fino a casa.
Simone Cappellaro studia Lettere all’Università di Udine e gli piace usare queste lettere per scrivere poesie e raccontini. Ha quasi sempre allenamento e ama i Nu Genea. Gli hanno rubato due bici e se l’è riprese entrambe.