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Chiedilo alle nottole

Racconto selezionato nella call per racconti collettivi della quarta stagione de La Seppia

di Emanuele di Carlo e Alessandro Tesetti

Non c’è un filo d’aria. Non c’è neanche un filo di voce, un suono. La Nomentana alle tre di notte è vuota, assente, muta; la Nomentana alle tre di notte del 13 agosto è un lungo dubbio, che separa luglio da settembre, un mese – quello di agosto – senza riscatto né valore; neanche arriva a metà che già è inoltrato e perso. Nel silenzio della lunga strada, qualcosa squarcia o sibilla da Porta Pia, più giù, da Villa Torlonia. E poi: il frinire dei grilli; l’acqua marcia che scorre dal fontanone; il rumore lontano d’un allocco; un motorino cinquantino che sgasa (ma lontano, tanto lontano e debole che pare venire dal Pigneto o dal Quarticciolo?). Io erro, io erro senza errare, io ero… giusto un po’ sudigiri, stimolato, senza sonno. Ogni rumore è minaccia, ogni Matelda è pulzella, ogni avventura è già venuta. Intanto, uuuuu…uuuu…uuuuu…uuuuu… continua ‘sto cazzo di allocco. Nient’altro, bisognerebbe impegnarsi. Ramingo, fuggitivo, non perso ma come se lo fossi, torno a casa per un po’ di pace.
    Mi rinchiudo nella tipica palazzinara insula romana, cerco di trovare sonno tra lenzuola sudaticce e federe ancor più unte, corpo che sa di sole, di agosto, sudore muschioso, e la doccia di notte non m’è mai piaciuta: non voler disturbare il sonno altrui, ché se loro beneficiano di questo io mica posso rosicare; sarebbe bello impazzire, infuriarmi, svegliare tutti, ma io invece non emetto neppure un sospiro. Allora mi affaccio al balcone, che dà sulla Nomentana. Cerco – per contare, come faccio di giorno – passanti, qualsiasi espressione di passanti. Solo un perro spelacchiato, febbrile, taciturno, che mi fissa dal basso della strada. «Argo!» decanto io. «No, Filippo» mi risponde lui alzando il muso. Poi poggia coda e culo a terra e mi chiede: chi sei? Cosa vuoi? Perché abiti lì? Dove fuggi? Perché giri solo? T’ho visto sai, t’ho visto. Poi s’alza e va, con le zampe incriccate, abbrustolite, mi domando come faccia a zampettare così tranquillamente, sull’asfalto rimasto dodici ore sotto il sole (altro rumore che s’aggiunge alla lunga e misera lista di suoni urbani: lo sfrigolio, quasi scoppiettante; ma non è questo l’orario, perdonate l’abitudine dell’udito, una questione del meriggio).
    Dormire proprio no, non è il caldo, non è il cane, il vuoto, il silenzio che silenzio non è, reminiscenze epiche. Esco o non esco? Ma adesso son tornato, cercare pace mi sono detto, ma come cerchi pace in tutto questo? Ad agosto, poi. Un rumore mi scazzotta, neanche un destro preso alle medie, dritto allo stomaco, che poi non è il colpo, è quello che resta, e quello che continui a sentire, il colpo lo dimentichi, ma poi ad ogni ansia incertezza marasma incertezza asma disgrazia, la cosa che senti allo stomaco si scambia con un colpo ricevuto, ma niente hai ricevuto, e allora bisogno di camminare fumare andare fuggire, placare il colpo. Bisogno di fumarmi una bella durlindana con tabacco secco secco, che mi incocci come vini resinati bizantini. Bisogno di Gerusalemmi liberate? C’è da definire storicamente, ora è capitale di quei mansoni là, ma quella è Falasṭīn, quella è terra di chi non ha più terra; non l’ONU, non Medinat Israel, non David Ben Gurion ecc. ecc.

    Proposto avendo già vietar l’acquisto
    Di Palestina ai cavalier di Cristo.

    Ritorno sulla Nomentana, con la testa là, la speranza del porre fine all’umano oltraggio di spargimenti di sangue e budella. Un rumore bianco si fa grigio nella mia testa: sarà il nottambulo 90 che passa pieno di cadaveri? Il conducente, volto vichingo e sopracciglio barbarico, li frusta e intanto fuma drummini. Quelli, accalcati, si strusciano tra di loro, blaterano, si mischiano: vogliono uscire. Delle mani penzolano dai finestrini. «Zitto carcame» urla il vichingo Atac il Grande.
    No: il rumore persiste, dista forse qualche centinaio di metri, ricorda mani che battono su un portone, tamburi in un corteo, gambe che marciano. E mentre prima lo ascoltavo e basta, adesso mi entra dentro, mi percuote. Il suono m’appare, in movimento, come una scia pallida e a tratti luminosa, bianca ed ectoplasma. Sfreccia accanto al Marymount e per quei secondi l’acqua del fontanone lì vicino smette di scorrere, anch’essa impietrita dalla visione celestiale e fantasmatica che si palesa davanti a lei: otto templari totalmente inadatti all’ippica, scoordinati, smemorati, incapaci di gestire i loro infernali equini, corrono, si disperdono nella notte. Prendono fresco? Giocano a polo o alla guerra? Oppure sono invasi dalla febbre da cavallo tipica dell’hidalgo farneticante? Sono diretti alla Gaza da “liberare” o conquistare?
    Goffredo di Cappadocia controlla la mappa, Roma direzione Rafah, cinquemila e passa chilometri, pilota gli altri aizzando un bellissimo cavallo bianco, sparso di macchioline grigie, ogni tanto parla, dice qualcosa del tipo from the river to the sea. Goffredo si vanta che il suo cavallo non solo parla, ma sa parlare pure l’inglese! Embè, borbotta qualcuno, la lingua del capitale, la lingua globalizzata e mercificata, il mio parla il latino, un buon e fido cavallo in latino deve nitrire!
    Intanto Goffredo non riesce a fermare l’animale, incazzato e fervido.
    «Tutto a posto?» gli fa Teofilo da Pisticci sul suo purosangue afgano.
    Goffredo si limita ad annuire, è tirato, teso, come se stesse ricacando fuori il sacro Graal, re Artù e tavola rotonda annessa.
    «Sì sì, è ‘sto cavallo mio, s’è imbizzarrito, vuol andar a combattere, freme dalla voglia, più di voi tutti messi assieme.»
    Teofilo pisticcia con la bocca, fa un’espressione che vorrà dire mah, io pure non vedo l’ora.
    Dietro di loro corrono altri sei: Ruggero di Brandeburgo, Pancrazio da Viareggio, Riccardo lo Scassasassi, Ugo (Ughetto per gli amici) di Aquitania, Bernardo da Roncisvalle e Guglielmo di Forlì-Cesena. Una rarità vederli così tutti insieme; perché spesso a uno non parte il cavallo, un altro è indifferente, un altro s’è dato al pacifismo, un altro combatte da un’altra parte. Però questa notte no, corrono uno di fianco all’altro, i mantelli e le spade mossi da un filo di vento. Invadere estrarre sopperire glorificare e di nuovo invadere estrarre crepare e far crepare, incapaci di uscire, incapaci di essere diversi da ieri: oh povero, povero il fato e il feto del cavaliere. Goffredo, intrepido doc dal 1100 D.C circa, si butta nel complesso architettonico di Sant’Agnese: dice di avere un piano.

    Gli otto templari entrano nell’antica chiesa romana, le porte si spalancano per il volere di Dio o per l’incuria del sacrestano. I cavalieri irrompono dentro, in mezzo al colonnato. Il TOC, TOC degli zoccoli sveglia persino il sonno perpetuo degli angeli. Una ventata gelida di aria fredda, molto ma molto furtiva, si dipana per tutta Roma nordest e ferma per cinque minuti il lanciafiamme capitolino. Goffredo di Cappadocia osserva i sette dietro di lui: suda freddo e non sa che fare. L’unico ad averlo capito è Pancrazio da Viareggio, ma non parla mai: un tipo timido, con la testa mozza, aspetta e spera che gli ricresca, così gli dicono, aspetta e spera che ti ricresce.
    Goffredo si getta nelle catacombe, il suo fido (mortacci sua) cavallo non sembra volersi fermare. Gli zoccoli degli animali rimbombano nelle cave di tufo, ma a un certo punto un boato clamoroso, come l’impatto di due eserciti in vecchie battaglie crociate. Ma magari, pensa Goffredo, invece di poltrire, nitrire, perire per queste strade bucate d’una città morta come noi. Invece no: perdura la nostalgia, il ricordo delle armi pietose, quando un gregge di cavalli malamente governati da malaticci e scanzonati cavalieri irradia nelle navate. Pare crollare il catino absidale, il soffitto a cassettoni ligneo e dorato, pure il mosaico ravennate sullo sfondo.

    Molto egli oprò col senno e con la mano, e ancora dunque, imperterrito, ogni anno, il gran sepolcro liberò di poveri cristi senza cristo, i quali, finalmente liberi, desiderantur desiderantur urlano (tranne quelli senza testa o bocca o corde vocali), sbracciano (tranne quelli senza braccia), scavalcano le mura della Basilica di Sant’Agnese e trottano con i loro ronzini per tutta la Nomentana. Un rituale, uno svago, una pasquetta: un lusso per chi possiede l’equino, un’invidia per chi gli manca il busto. E ogni anno Goffredo di Cappadocia, mentre assiste all’erranza dei suoi, capitano di trotto romanesco, eccitato (ma solo spiritualmente, sfortuna vuole che il membro più non ha, tagliuzzato nello scontro del 10 agosto 1094) intruppa cade precipita dal trentaseiesimo scalino delle catacombe di sant’Agnese, seguito da tutti gli altri sette cavalli a lui vicini, e giù tutti i santi, giù tutto il cielo, uno ad uno a dar colpa, quel che è rimasto del suo corpo si riempie di segni, traumi, ecchimosi, molto soffrì del suo glorioso acquisto. Questo mi parve di vedere: la livida caduta dei difensori dei valori del passato, reduci di che e di chi non s’è mai capito.

    «Vorrei capire chi? Chi ti ha detto che devi guidare tu?! Chi ti ha detto che devi essere tu il primo!?» gli urla, incazzato nero, Ruggero di Brandeburgo. Gli altri annuiscono, pure Pancrazio ci prova ma niente, senza testa è veramente difficile. Intanto si tirano su, cavalli compresi. ‘Na bella botta davvero, attutita solo dall’essere fantasmuzzi scarni; ma ‘na bella botta davero, roba che io mi sarei rotto l’anca o addirittura ucciso. E invan l’Inferno a lui s’oppose, facendo fare a Goffredo quella figura di merda, mettendo in discussione il suo onore, la sua autorità. Di morti ingombrò le valli e ‘l piano, e va avanti così da un migliaio di anni circa, di morti che scorrazzano per le strade e cozzano tra di loro quanti sono. Poi il capofila si sente in colpa, Teofilo prova a intervenire, anche a difenderlo un po’. Alla fine, scelgono virilmente di non parlarsi e tornano nei loculi a sognare Angelica, Armida, Erminia (avoja a sognare Angelica, Armida, Erminia) o a sognare la liberazione, la conquista di quelle terre là che da secoli e secoli non hanno il governo del popolo legittimo (ma avoja a sognare, che possiamo far noi? Al massimo trottare senza tatto, tocco, trotto, carne: sono gli uomini ad avere capacità d’azione, non la Storia, non la memoria, non i fantasmi indignati dall’urlo FREE PALESTINE, perché la faccia non ce l’hanno, perché la testa è stata mozzata da una scimitarra o da una trave troppo, troppo, bassa).

    Tornando nuovamente all’insula, mi rendo conto che i fantasmi alla fine sono persone molto monotone, a tratti indecise; difatti l’estate la passano praticamente sempre a Roma, tra il Verano e i Parioli. Corrono, saccheggiano, intruppano. Nient’altro. Allora meglio il sudore, meglio le docce non fatte, meglio le polluzioni notturne. Io, comunque, me ne torno a casa, col cane che abbaia ai cavalli, ai cavalieri, ai fantasmi, o forse al vuoto, o forse a me.

Emanuele ed io, Alessandro ed io (chi è che parla?) Io parlo... no, parlo io...eh no porco… vabbè insomma, scrivere a quattro mani è uno scontro di questo tipo, pretesa e scazzotto, editing continuo da parte dell'uno e dell'altro, ormai non si capisce più chi scrive e chi edita (bello e inquietante), arrivare ad un compromesso, sforzo di rendere la cosa accettabile per entrambi. Fortuna che siamo amici (amici di continui tsunami e disastri: litigi, invidie, gelosie, incomprensioni che ci hanno allontanato- te ricordi la cosa in montagna? sì…Eh ancora me gira! E basta zi…- e dopo tutte queste cose un racconto che sarà mai). Non è la prima volta che scriviamo insieme, e ogni volta sembra sempre l’ultima. Qualche anno fa è nata una piece teatrale chiamata "L'Alpaca", futuri cortometraggi o lunghi ci aspettano, prima o poi. Emanuele è abituato a scrivere collettivamente, porta con sé l'esperienza dello scrivere insieme, sceneggiature e soggetti. Per il sottoscritto non è così, vede la scrittura, ancora come un sollazzo individuale, una masturbazione (a questo proposito si chiede se preferisce scopare). Abbiamo scritto a distanza di cinquecento chilometri circa, Alessandro a Padova, Emanuele a Roma, è stato bello ritrovarsi su un foglio bianco, condiviso online, sapere quando l'altro scriveva, andare a controllare in diretta-ma che te stai a innamora’? Un pochetto…baciami stupido-comunque è andata bene, sappiate questo. “Chiedilo alle nottole” è uscito fuori dalla capoccia di Emanuele e ha incontrato il signor Tesetti, poi diciamo che siamo entrambi usciti dalla nostra zona di comfort scrivendolo. Ci siamo dilettati nel narrarvi l'anabasi di templari cristiani, venuti dagli inferi e pronti a sostenere il genocidio israeliano. Cadaveri pronti ed incazzati che camminano e galoppano ma faticano ad arrivare, nelle idee e nelle azioni, al Grande Raccordo Anulare, figuratevi in Palestina. Tutto questo in un’afosa notte di agosto un po’ nomentano, habitat ideale del silenzio, di cani, turisti dispersi, Tesetti ubriachi, Emanueli fatti e rifatti. Buona lettura e free palestine.