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Lavanderia a gettoni

di Simone Cappellaro

    Ho dieci occhi, ma lo so solo io. Sono occhi strani, non hanno la forma né il colore dei vostri occhi umani, ma io vedo tutto ugualmente. Una sera in cui le luci dei lampioni nel viale erano spente sono riuscito a specchiarmi sulla vetrina, e ho visto che avevo dieci occhi: cinque di sotto e cinque di sopra; belli allineati e lucidi, profondi. Ho palpebre di vetro e pupille di metallo traforato, così l’acqua può uscire dai buchi assieme al detersivo. Qualche volta mi è capitato di piangere. Le mie lacrime hanno sempre profumi diversi, ma i miei preferiti sono lavanda e biancospino. Quando piango non è mai perché sono triste. Io sono una lavanderia a gettoni, non sono triste; se piango è perché qualche guarnizione cede. Appena me la cambiano smetto subito.
    Faccio il bucato dal 1985 e non ci guadagno niente e nemmeno mi interessa. Il ricavato del cambio gettoni se lo prende un tizio che ha rimpiazzato da poco lo storico proprietario, quello che aveva scelto le piastrelle per il pavimento di un color verde smeraldo talmente anni Ottanta che è tornato di moda. Ormai sono pure io una reliquia del passato. Tutti hanno la lavatrice in casa, io servo a poco, arriva sempre meno gente, mi annoio. All’inizio non avevo tempo per annoiarmi: c’era un sacco di lavoro e lavavo anche di notte, a volte tutta la notte a far girare i panni nel cestello, facendo attenzione a grattare via tutte le macchie e a togliere la puzza di sporco. Poi velocissimo, sempre più veloce. La forza centrifuga che strizza l’acqua via dai vestiti e li stropiccia e strapazza, che dopo bisogna per forza stirare. Quando finivo, le persone svuotavano tutto il contenuto del cestello in altre bacinelle, a volte borsoni o borsette. Non era neanche stancante come lavoro, l’energia elettrica c’era e non avevo altri bisogni fisiologici.
    I problemi sono iniziati con i primi furti di biancheria. La gente ha iniziato a non fidarsi più: chi poteva, restava ad aspettare che finissi di lavare. Tirava una brutta aria di tensione, in tanti dimenticavano di separare bianchi e colorati e il bucato entrava di un colore e ne usciva di un altro. Se la prendevano con me, ma cosa potevo farci? Potevano stare più attenti, io seguivo il programma di lavaggio e lavavo. Da lì in poi venne sempre meno gente e incominciai ad annoiarmi.
    La noia io la conosco bene. L’ho imparata attraverso i miei dieci oblò. Vedo la noia delle persone, la studio e la scandaglio. Tanto non ho un cazzo da fare, esattamente come quelli che entrano in negozio e devono aspettare la fine del programma. Ho una clientela che vorrebbe essere altrove. È insofferente. Provate voi a stare due ore senza far niente, ad aspettare i capi delicati. Non c’è libro o musica che tengano. Ci si rompe il cazzo. Si sbuffa. Si butta l’occhio sul viale a vedere chi passa, sperando che il tempo voli via come le foglie dei pioppi in autunno. Da fine ottobre il viale diventa pieno di foglie: arancione e marrone sopra e sotto agli alberi. Anche il negozio si riempie delle foglie che la gente pesta e porta a spasso sotto le scarpe. So che tempo fa solo dal rumore delle scarpe sulle piastrelle: se i passi sono croccanti fuori c’è il sole, mentre se sono gelatinosi ha piovuto.
    Non capita mai niente di esaltante in negozio. Si entra, si aspetta e si esce. La permanenza è temporanea, sfuggente, poco gradita, forzata. Quando capita che ci sia più di una persona in negozio, nessuno fiata. Il silenzio sembra essere l’unica condizione possibile per accompagnare il fastidio condiviso e disegnare una linea di confine a metà del pavimento piastrellato verde smeraldo: uno lava da una parte, l’altro dalla parte opposta. Si fa a metà, rigorosamente opposte. Non si invade lo spazio dell’altro, che comunque in fin dei conti sarebbe spazio di nessuno, dunque il ragionamento fila ma non fila. Si entra e si esce senza salutare, ma diversamente dal solito la fretta non è una scusante. Che seccatura.
    Sembra che ci sia sempre qualcosa di meglio da fare piuttosto che stare qui  in negozio, e probabilmente è così, ma io non ho mai provato a vedere cosa c’è fuori, quindi non lo so con certezza. Una cosa però l’ho vista e la so per certo. D’estate, quando fa troppo caldo e qualcuno mette il fermaporte per far girare l’aria, riesco a vedere fino all’altra parte della strada. C’è una gelateria e là c’è sempre gente che fa la coda e aspetta. Io li guardo aspettare, ma non aspettano come quelli che aspettano da me: sembrano più rilassati, gli va bene così. Fanno cose assurde tipo parlarsi e poi si mangiano pure il gelato, che a questo punto penso sia molto buono. Che seccatura. Io aspetto solo che qualcuno si macchi.

Simone Cappellaro studia Lettere all’Università di Udine e gli piace usare queste lettere per scrivere poesie e raccontini. Ha quasi sempre allenamento e ama i Nu Genea. Gli hanno rubato due bici e se l’è riprese entrambe.