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The Substance come metafora dell’auto-estrattivismo

di Antonio Semproni

    The Substance (2024) di Coralie Fargeat, inaspettato protagonista della stagione dei premi di quest’anno, si inscrive nel filone body-horror, il cui caposcuola indiscusso e imprescindibile è David Cronenberg. In questo genere di film, le mutazioni corporee di cui soffrono i protagonisti sono la manifestazione estetizzata, cioè resa massimamente percepibile, della rottura del delicato equilibrio fra uomo e natura mediato dai ritrovati della tecnica. Quest’ultima non si rivela in grado di preservarlo e le conseguenze nefaste della sua rottura prendono letteralmente corpo. Talvolta l’essere umano assorbe una natura altra da sé, come nella nota pellicola La mosca (1986), altre volte introietta nel proprio corpo i ritrovati della tecnica per assoggettare e amministrare la natura, come avviene con i poteri telepatici di cui sono dotati i protagonisti di Scanners (1981).
    In The Substance, Elisabeth Sparkle (Demi Moore) è una star – sparkle significa proprio scintilla, luccichio – conduttrice di un programma televisivo di aerobica che conta moltissimi affezionati. Il giorno del suo cinquantesimo compleanno il capo la licenzia, dicendole senza mezzi termini che a quell’età la sua carriera deve considerarsi finita e che non può in alcun modo rinnovarsi. Nella versione in lingua originale l’uomo pronuncia, con una certa enfasi, la parola renewal, che significa rinnovamento e che implica dunque una qualche mutazione. Qui entra allora in gioco la dinamica caratterizzante il body-horror: Elisabeth entra in contatto con una misteriosa azienda, che, pubblicizzando i propri servizi con un linguaggio accattivante e nichilista, le offre una soluzione. Mediante la semplice iniezione di un siero miracoloso (la sostanza eponima), la protagonista può scindere il proprio DNA e così generare una nuova versione di se stessa: più giovane e, almeno canonicamente, più bella. Poche e semplici regole presiedono alla coesistenza della nuova versione e della sua matrice. Le due versioni dovranno alternarsi: a ciascuna toccherà una settimana, terminata la quale, l’una dovrà dare il cambio all’altra, che nel frattempo rimane immersa in uno stato simile al coma (nella versione in lingua originale del film lo scambio è designato con il termine switch, che in genere si riferisce più a un congegno che a un essere umano). Inoltre, ogni giorno della propria vita, ciascuna versione deve stabilizzarsi, iniettandosi del fluido – una sorta di linfa – estratto con una speciale siringa dal corpo dell’altra.
    Ed ecco – materializzatasi per partenogenesi dalle carni di Elisabeth – Sue (Margaret Qualley), che subito rimpiazza la matrice nella conduzione del programma di aerobica. Sue accresce l’audience dello show proprio perché rappresenta una versione nuova, cioè una merce rinnovata, più performante in termini di valore ricavabile. La telecamera indugia molto sulle zone corporee, soprattutto erogene, di Sue, come a sottolineare che il suo valore coincide con un valore-segno¹ ben specifico, rappresentato dallo status connesso al possesso di un corpo canonicamente bello e dagli inviti che questo corpo rivolge ai telespettatori. Si tratta dell’invito al sesso, nonché di quello alla mimesi, cioè a imitare il corpo di Sue: in altre parole, i telespettatori sono spinti a conformare il proprio aspetto fisico a quello di Sue². Il corpo di quest’ultima è un dispositivo atto a sovrastimolare il pubblico, ad accendere i suoi desideri e le sue emozioni e dunque, tramite l’attivazione di energie psichiche, a rinfocolare comportamenti consumistici. Le insistenti e reiterate inquadrature del fisico di Sue costituiscono, in definitiva, un esempio di pornografia del semiocapitalismo³: espongono il capitale semiotico di quel corpo in tutta la sua potenza, che è primariamente quella di catturare l’attenzione.

Demi Moore e Margaret Qualley in The Substance , dir. Coralie Fargeat, (UK, USA, Francia, 2024).
Demi Moore e Margaret Qualley in The Substance , dir. Coralie Fargeat, (UK, USA, Francia, 2024).

    Le metamorfosi cui va incontro Elisabeth-Sue rispondono in parte a soluzioni già viste: proprio David Cronenberg le aveva implementate nel già citato La mosca. Tuttavia, mentre in quest’ultima pellicola il protagonista mescola il proprio genoma a quello dell’insetto (dunque assorbendo un altro da sé), in The Substance non si dà alcun innesto di un altro da sé nel proprio corpo. Si realizza invece l’estrazione di altri dal proprio corpo: Sue, ancor prima che un’estensione del corpo di Elisabeth o una sua nuova versione o scissione, rappresenta il frutto dell’estrazione delle sue risorse. Questo è evidente non solo dagli spietati segni del repentino invecchiamento che affliggono il corpo di Elisabeth quando Sue non rispetta lo switch, ma anche dal motto della misteriosa azienda “ricorda che sei una”, il quale funge da criterio aziendalistico per l’efficiente gestione delle risorse ancor prima che come un memento mori.
    Dunque il film è un’icastica metafora dell’auto-estrattivismo e delle sue funeste conseguenze. Per “auto-estrattivismo” si intende un concetto ulteriore rispetto all’“auto-sfruttamento”, sebbene a esso strumentalmente connesso. Quest’ultimo vale a significare che una parte del valore che, tramite il nostro lavoro, crediamo di produrre per noi stessi non viene in realtà destinato ai nostri bisogni, perché sovrabbondante rispetto a essi o perché le condizioni di lavoro che ci siamo auto-imposti sono tanto onerose da impedircene il godimento (per esempio, siamo troppo stanchi o privi di tempo libero). L’auto-estrattivismo indica invece la mera estrazione, dalla propria persona e dalla sua fisiologia, di risorse volte a perpetuare la condizione di auto-sfruttamento, lasciando prospettare il loro esaurimento e dunque la fine di qualsivoglia funzionalità dell’essere umano produttore di valore: una sorta di burnout cellulare.
    A ben vedere, Elisabeth cessa di esistere quando Sue prende il sopravvento e rimanda di giorno in giorno lo switch, continuando a estrarre linfa dalla matrice: Elisabeth dapprima si infuria, poi però si mostra rassegnata alla prepotenza di Sue perché, se interrompesse il trattamento, rimarrebbe “sola” (nella pellicola originale on your own, locuzione la cui accezione oltrepassa la sfera esistenziale per addentrarsi in quella economica), come le fa notare al telefono il referente della misteriosa azienda. Rimarrebbe sola in quanto non avrebbe più valore da estrarre da sé, dunque più nulla da vendere. I suoi unici rapporti sociali erano infatti fondati sulla produzione e scambio di valore: da parte sua, quello estratto dal proprio corpo. Ora che il corpo non la assiste più, non le resta alcun legame. Nei suoi giorni di attività, Elisabeth resta chiusa in casa a ingozzarsi davanti alla TV e a contemplare la propria gigantografia esposta in salotto. Quest’ultima equivale, piuttosto che a un ricordo di giorni gloriosi, alla curva del diagramma aziendale dell’entità-produttiva-Elisabeth e, in particolare, al punto più alto di tale curva: per Elisabeth è fonte di frustrazione, mentre per Sue rappresenta un picco da superare.
    The Substance è in buona parte sovraccarico di un’estetica ipertrofica: corridoi degli studios tanto lunghi da inghiottire Elisabeth-Sue, a simboleggiare la lunga carriera promessa (e dunque l’indeterminatezza temporale dell’auto-sfruttamento), e colonna sonora che ronza nelle orecchie, quasi a interrogare la coscienza, oltre che dei personaggi, anche del pubblico in sala. La pellicola costituisce – come direbbe Jean Baudrillard – un esempio di iperrealtà: il filosofo francese usa questo concetto per indicare quei mondi immaginari, solitamente raffigurati nelle opere del genere science-fiction, in cui si sono materializzate una o più circostanze che costituiscono la maturazione di una tendenza già presente, almeno latentemente, nella società in cui viviamo.  L’autore di un mondo iperreale ricorre così a fantasiosi e spettacolari ritrovati della tecnica (come la sostanza atta a produrre la nuova versione di sé) e a effetti di scena impressionanti per richiamare l’attenzione dello spettatore su ciò che, in certa misura, può dirsi già realtà. L’auto-sfruttamento difatti lo è e, di conseguenza, anche il suo annesso, l’auto-estrattivismo: quanti assumono farmaci per essere più efficienti sul lavoro? Quanti non si sono più ripresi dopo un burnout? Quanti miliardari stanno investendo in studi e ricerche per allungare indefinitamente la vita, così da continuare a gestire i loro imperi e generare sempre più valore? È il sogno, tutt’altro che segreto, dei Musk e dei Bezos. 
    Manca – nel film di Fargeat – qualsiasi riferimento a una possibilità esistenziale alternativa, che non sia cioè inclusa in quelle reperibili all’ombra del modo di produzione capitalistico. La dialettica della trama si articola tutta tra Elisabeth e Sue e la vicendevole estrazione di risorse dell’una dal corpo dell’altra, fino a quando la seconda non finisce per dominare la prima: trattasi di una dinamica relazionale che ritroviamo spesso e volentieri nella società competitiva e predatoria in cui siamo immersi. L’iperreale è in definitiva il frutto dei mezzi adoperati da Fargeat per esprimere questa dinamica di per sé già reale, per accrescerne l’evidenza e farla così assurgere a iperrealtà. A tal fine la regista ricorre non solo ai mezzi estetici, propri del linguaggio del cinema, ma anche alla tecnica, propria del mondo della produzione, immaginando una sostanza capace di tirar fuori da noi una versione migliore. Questa sostanza verde fluo, merce estetizzata al pari degli smartphone di ultima generazione, è soltanto il pretesto per dare la stura allo sviluppo di una relazione di predominio.
    Il film, infine, è scevro di elementi onirici: i sogni di Elisabeth-Sue mostrati nella pellicola sono incubi in cui il trattamento sfocia in esiti catastrofici. In altre parole, rappresentano quel timore di fallire che ci induce a estrarre ancor più valore da noi stessi, fino a esporci al rischio di implodere. Generare un’altra versione di sé può renderci immuni a questo pericolo? Vedere The Substance per diffidare.

¹ Un bene (o un complesso di beni) esprime un valore-segno nella misura in cui, prima di venire in rilievo per la funzione che assolve e l’utilità che se ne trae (c.d. valore d’uso), viene considerato per la capacità di indicare (e quindi di essere segno del) lo status del suo possessore e quindi di situare quest’ultimo in una certa posizione in seno alla società, come teorizzato da Jean Baudrillard ne Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2003 (1a ed. originale 1968).
² Si tratta del cosiddetto “desiderio mimetico” di cui parla René Girard in particolare in Anoressia e desiderio mimetico, Lindau, 2009 (1a ed. originale 2008).
³ Sul semiocapitalismo, cioè sul linguaggio – composto prevalentemente di segni non linguistici – che il capitale ha incarnato e veicola sull’infosfera e sui social media, v. i lavori di Franco Bifo Berardi e, in particolare, Disertate, Timeo, 2023, pp. 139-146; 222-231.
Sull’estrattivismo, v. Kohei Saito, Il capitale nell’antropocene, Einaudi, 2024, pp. 92-95; 106-107; 128-130. Lo studioso giapponese denuncia come l’estrattivismo alteri l’equilibrio metabolico tra uomo e natura, facendo sì che quest’ultima non possa ricostituirsi o comunque non possa rigenerarsi completamente. Questo concetto è applicabile anche ai nostri corpi e alla nostra psiche, essendo noi stessi natura.
Sull’autosfruttamento, v. i lavori di Byung-Chul Han e, in particolare, La società della stanchezza, Nottetempo, 2020, pp. 23-29.
In Cyberfilosofia, Mimesis, 2010, pp. 9-17.

Antonio Semproni: anticapitalista, l’ultima volta che lo hanno visto in un centro commerciale faceva la comparsa sul set di Zombi (1978) di George Romero. Suoi scritti sono apparsi su «Sinistrainrete» e il suo ultimo libro è Supermercato h24 (Digressioni, 2024). Fa parte della redazione de «L’Equivoco». Venera in ordine sparso Franco Bifo Berardi, la fata Amalka, Ernesto Che Guevara e Cassandra (Cassie) Thomas.