di Giuseppe Beltrame
Vagolare lento d’umori e pace
tra i meandri e i budelli grigi della città
morti i prati e le posate foglie di casa.
Piazza del Santo accoglie e tanto e poi.
Radi stanno i corvi e gli avvoltoi
abbarbicati sulle meningi e tra i rivoli caldi
della mente mia, tra le storte linee
di suoni e parole mangiucchiate dai passanti.
Tracce di rimpianti non sgusciano
sudice dirette dove devono andare
oltre gli scudi e i patemi, arricciandosi
e scavalcando deboli sussulti di memoria.
Creta rimane da toccare per plasmare
per sporcarsi di vero, di lavoro e sincerità.
E qui paio il pesce guizzante
che saltella fuor d’acqua e cerca e cerca.
E salto e giungo in lande e angoli preziosi.
Tanto ho da rendere.
Una croce tra il rosa e i capelli
tirati dall’acqua andante.
Trangugio nuovo come un ingordo
e poi ho gli occhi pieni
e non riesco nemmeno a regalare
lacrime alle piaghe e a chi merita.
Gira una goccia sottile in fondo
e svanisce e torna e qui.
Grida te e oggi non saprei.
Gratta l’altezza quell’angelo d’oro
che pare ancora lui a guardare,
a proteggere.
Gratta i sensi dei crani impegnati
a sputare fatica sconsiderata,
gettata in pasto
alle fauci ingorde del tempo
che schiaccia e lascia.
L’inganni se vuoi.
Rimane l’ultimo cardellino
a chiamarmi e a regalarmi
l’alito di vita e sento
il sudore sulla fronte
e l’orgoglio che ingrassa e lorda
il cuore puro.
Lui andato via
io fuggo.