di Alessandro Simonutti
Uscirono in sei dal passo del Crotalo Muto, accolti da una vasta distesa d’erba che si stendeva fino al punto in cui il buio rendeva impossibile cogliere qualsiasi forma. Neri si era portato in testa alla colonna, dove Lodovico si era posto per affrettare il passo di marcia del gruppo. Il ragazzo osservava la schiena di quell’uomo, che ora avanzava stringendo la spada con la destra, come per ottenere perdono per non averla estratta nell’attimo fatale del fratello. Osservava la sua mano sinistra serrarsi e poi distendersi, come un groviglio pulsante con cui l’uomo voleva dare sfogo alla sua rabbia più intima. Le dita si contorcevano senza sosta, e Neri continuava a osservare con attenzione quel palmo iniettato di spesse vene scure, screziato del sangue di Umberto e della terra con cui il fratello l’aveva seppellito. Aveva voluto che fosse inumato lì, nel santuario dei suoi antenati, cosicché potesse vegliare per sempre su coloro che le vecchie statue corrose dall’umidità non erano state capaci di difendere.
Arrigo camminava di fianco al guercio, e non poteva fare a meno di ripensare a quanto era appena avvenuto. Si interrogava soprattutto sul ragazzo, su colui che tutti chiamavano “il folle”. Nella sua testa Umberto era morto già decine di volte, e decine di volte Neri aveva impugnato quella strana daga cristallina per colpire l’assassino.
Umberto cadde sotto il peso del suo uccisore, portandosi le mani al collo per sentire il sangue caldo scivolare come un corpo estraneo dalla gola recisa. Su di lui piombarono subito Lodovico e uno dei due mercenari, che mulinarono la spada in aria prima di calarla sull’aggressore, che si trovava ancora accovacciato sul cadavere grondante. Questi però si scansò scivolando fra le due spade come una foglia sospinta dal vento, e i due fendenti si abbatterono sul costato del fratello deceduto da cui si levarono due distinti schizzi vermigli. Prima ancora che Lodovico e il mercenario potessero voltarsi per colpire nuovamente l’aggressore, questi aveva già protratto lo slancio compiuto per schivare, portandosi verso Gano il guercio e l’errabondo, ed estraendo al contempo una seconda daga corta dalla cintura. Dagli occhi del vecchio Monaco si sprigionò per un attimo una luce accecante, che sembrò quasi sprizzare fuori dalle orbite come il residuo luminescente di un tizzone sfuggito da un braciere. Entrambi portarono la spada davanti a se in posizione di guardia, ma prima che le lame dell’assassino potessero infuriare sulle loro Neri si pose fra queste e quelle, avanzando con la freddezza di una lince che attende fra gli arbusti che la preda lo raggiunga da sé. L’aggressore frenò repentinamente il suo slancio per scagliare un colpo con la daga destra sulla spalla del giovane, mentre direzionava la sinistra per un affondo sul suo magro costato. Il ragazzo allora estrasse una corta spada fatta di materiale vitreo e limpidissimo, che rifrangeva appena sui profili levigati la scarsa luce presente. La lama non fu completamente fuori dal fodero prima che la daga dell’assassino fosse quasi giunta a toccare la spalla di Neri. Il giovane allora spostò il torso di pochi centimetri per far andare a vuoto quel colpo, mentre con la sua arma trasparente e fragile calò un colpo leggero e preciso sul polso sinistro dell’aggressore, che recise senza imprimere una forza maggiore di quella dell’acqua di un sottile ruscello di valle sul suo greto. Il braccio che aveva mandato il colpo a vuoto venne prontamente afferrato dal giovane e tenuto stretto per una frazione di secondo, il tempo necessario per sferrare un secondo colpo che andò a colpire anche l’altra mano dell’assassino, staccandola dal polso. Neri lasciò allora il braccio dell’uomo mutilato, facendo roteare brevemente in aria la propria spada, che attraversò il fascio lunare che il finestrone proiettava sul l’ingresso della cavità, rinfrangendone la luce sulle pareti. Non appena questa ricadde Neri L’afferrò con la lama rivolta verso il gomito, per poi portarla verso il costato sinistro del l’aggressore. La lama penetrò le ossa e la carne per raggiungere il cuore, e allora la sua anima cristallina si iniettò di un colore rosso vivo, come se stesse sottraendo avidamente dal cuore ancora pulsante l’ultimo sangue che vi sarebbe scorso. Il giovane sfilò l’arma dal corpo, che accompagnò a terra con il braccio sinistro rimasto libero, adagiandolo senza produrre rumore sul suolo umido della cavità. Gli altri si avvicinarono al cadavere, per scorgere accanto alla ferita mortale tre sottili onde racchiuse in uno scudo dorato, lo stemma di Piandelcorso.
Arrigo terminò per l’ultima volta di ripercorrere quella scena, di scorgere quello strano artefatto che strappava all’assassino la porpora che portava nelle vene, per poi venire rinfoderata come una lama di fragile rubino. Si voltò verso la nera maschera che il cappuccio proiettava sul volto del guercio, quindi gli chiese – Chi è? Chi è colui che tutti chiamano il folle? –
Il guercio attese poco prima di rispondere – Lui non è di Rupestretta, anche se vi ha trovato dimora da quando era piccolo –
Arrigo rinnovò il suo interrogativo -Da dove viene quel ragazzo? Parla, vecchio. –
La risposta gli arrivò dopo un altro attimo di silenzio – Egli non ha nome né famiglia, venne trovato in una notte d’estate al limitare del grande fiume d’erba. –
L’errabondo pose lo sguardo oltre la valle e le sue montagne, nel punto in cui ogni depressione e ogni altura degradavano in uno sconfinato tappeto erboso che di notte si tingeva del pallido riverbero della luce lunare sulla brina fresca. Nessuno sapeva cosa ci fosse oltre quell’orizzonte piatto, immerso nella sua staticità millenaria. Nessuno a Rupestretta aveva mai osato avventurarvisi, se non qualche condannato che per sventura fu costretto a errarvi in eterno; e nessuno sapeva cosa ci fosse, dopo quel mare freddo e verdastro, se non tramite qualche vecchia storia che accennava a una città splendida chiamata “Oltrerupe”.
Il vecchio aggiunse – Non aveva nulla con sè, se non quella spada di vetro –
Arrigo allora lo interruppe -Combatte come non ho mai visto fare da nessun guerriero della valle, come sospinto da qualcosa che ne governa i movimenti –
– Nessuno sa dove ha imparato a muoversi in quel modo, come un semplice infante possa essere giunto qua dal fiume d’erba avendo già appreso una simile tecnica. D’altra parte, non lo sa nemmeno lui; non ricordava nulla quando è arrivato, e anche ora la sua memoria non giunge più addietro del giorno appena passato –
Arrigo poté finalmente capire – È dunque per questo che lo chiamano folle –
– Sì, anche se lui non sembra soffrirne –
L’errabondo guardava il dorso esile e sottile del ragazzo, che ormai camminava affiancato a Lodovico.
Il lungo vespro nero